James Brown, the Nixon’s Clown? Antonio Romano approfondisce il controverso legame tra James e Richard Nixon che fece scalpore nel 1973

James Brown, the Nixon's ClownE’ nota la citazione del sociologo nero-americano Amiri Baraka che recita: “Se Elvis era il re, chi è James Brown, Dio?”.
Naturalmente si riferiva alla sua musica e al suo carisma, ed all’impatto che non è esagerato definire rivoluzionario che ebbero culturalmente su tutta la comunità nera-americana a partire dagli anni ‘60. Ma sono, del pari, convinto che Baraka, musulmano e marxista, se quella sera del maggio 1973 fosse passato nei pressi dell’Apollo Theater di Harlem si sarebbe aggregato alle proteste che furono organizzate contro il Godfather del Soul. Ma chi era che stava protestando, in modo anche acceso come vedremo, e perché soprattutto, contro mister Brown?

Andiamo con ordine.

Brown, cresciuto in un milieu di povertà, emarginazione e criminalità, alla fine degli anni ’60, artista oramai affermato e milionario, si sentiva, ed in certo senso lo era, l’emblema dell’americano che con il sudore della fronte e la gestione rigorosa del proprio talento ce l’aveva fatta, si era arricchito e poteva permettersi di sentirsi la voce, il Godfather appunto, della propria comunità, la nera-americana, negli anni immediatamente successivi al Civil Right Act.
Ma quando il 4 aprile del 1968 fu assassinato Martin Luther King, per tutta l’America, non solo quella progressista, fu uno shock e, come prevedibile, la tensione nei ghetti neri non poté più essere contenuta ed esplose con violente rivolte nelle maggiori città degli Stati Uniti.
James Brown, che aveva un concerto programmato la sera seguente a Boston, uno degli epicentri dei riots, dopo una riunione con le autorità cittadine, decise, per quel paterno senso di responsabilità comunitario, di tenere ugualmente lo show e di farlo trasmettere in diretta televisiva nel tentativo di sedare la rabbia delle persone trattenendole in casa. Questa scelta non piacque, naturalmente, agli esponenti del Black Power, che cominciarono a considerare Brown con un certo sospetto, accusandolo di connivenza con il potere e di essersi schiarato in difesa dello status quo.
Ovviamente, Brown non era un uomo politico, ma un artista ed, in quanto tale, le sue risposte alla crisi furono istintive ed immediate, e, diciamolo, non particolarmente acute dal punto di vista dell’analisi socio-politica.
Il suo brano del 1968, che sarebbe diventato una sorta di anthem dell’orgoglio nero, la celeberrima “Say it loud, I’m Black and I’m proud”, per esempio, già conteneva i semi del suo avvicinamento alle teorie del black capitalism, una mix di conservatorismo politico e liberismo economico in salsa black propugnate dalla non certo radicale borghesia nera, quella tanto disprezzata borghesia nera delle opere di Amiri Baraka.
Certo, il brano esorta a non vergognarsi di essere neri ed americani, anzi afferma “gridalo forte!”, ma dice anche: “noi chiediamo una possibilità di creare qualcosa da soli, siamo stanchi di sbattere la testa contro il muro e lavorare per qualcun altro”.
Che, parafrasato, è un chiarissimo invito proprio alla libera intrapresa. Medesimo invito che ritroviamo, espresso in maniera più esplicita, anche in “Funky President” del 1974: “Uniamoci e compriamo un piccolo terreno, guadagniamoci il cibo come un uomo dovrebbe fare, risparmiamo il denaro, mettiamo su una fabbrica e lavoriamo per noi stessi”.

Proprio per prese di posizione alquanto ambigue come queste, iniziò ad essere avvicinato a fini propagandistici dai politici dell’America bianca, sia Democratici che Repubblicani, che lo corteggiarono, solleticando il suo immenso ego, con la storia, della quale era fierissimo, dell’uomo fattosi da solo lavorando duramente.
Inizialmente, nel 1968, prestò la sua immagine ed il suo brano “Don’t be a dropout” alla campagna contro l’abbandono scolastico promossa dalla presidenza Johnson.
Ma durante la campagna elettorale di quell’anno, mister Brown diede tutto il suo entusiastico appoggio al Repubblicano Nixon, contribuendo ad incrinare la fiducia che molti neri avevano nella sua capacità di essere determinante, o almeno influente, anche a livello politico.
Brown, in realtà, fu attratto dal bandwagon dei Repubblicani dal programma della “affirmative action”, volto a favorire, da un lato, l’istituzione di quote di assunzioni preferenziali a favore dei cittadini neri nel settore pubblico e, dall’altro, in generale il loro lavoro e il loro spirito di imprenditorialità, nel chiaro intento di coltivare una classe media black e conservatrice che, quindi, potesse preservare il vigente sistema socio-politico statunitense.
Così Brown, pieno di sé dopo che Nixon lo aveva pubblicamente citato come esempio del miglior black capitalism, si esibì nel gennaio del 1969 alla cerimonia d’insediamento del Presidente Nixon, cantando proprio “Say it loud, I’m Black and I’m proud”, evidenziando agli occhi ormai disillusi di molti militanti neri la vacuità dei contenuti rivoluzionari del brano.
Ed anche nella successiva campagna elettorale del 1972, James Brown, le cui innumerevoli attività imprenditoriali erano fiorite e si erano consolidate durante gli anni del primo mandato nixoniano, fu uno dei pochissimi personaggi dello spettacolo neri, con Sammy Davis Junior e Lionel Hampton, a sostenere la rielezione di Nixon.
Tutto ciò non fece altro che inasprire i sentimenti che una parte del mondo “Black and proud” nutriva nei suoi confronti: ed infatti, quando una sera del maggio del 1973 si stava esibendo nell’Apollo Theater di Harlem, fu letteralmente assalito da una folla che non si dimostrava certo bendisposta nei suoi confronti. Furono esposti degli striscioni recanti delle frasi che il suo orgoglio non poté reggere, “James Brown the Nixon’s Clown” e, addirittura, “Get that clown out of town”, cosicché fu costretto ad interrompere l’esibizione per dare quelle spiegazioni che la sua gente pretendeva ed, in un certo senso, meritava anche.

E disse: “Non puoi cambiare una casa dall’esterno, ma devi essere dentro la casa. E’ per questo che ho appoggiato Mister Nixon. Ho cercato di far entrare tutti noi in quella casa, ho cercato di fare pressioni sul Governo, ma non mi sono dimenticato di noi.”
Ora io non so come continuò la serata, se la folla ritenne sufficienti quelle parole e se dell’episodio è rimasto qualche eco all’interno della black community americana, ma quello che è certo è che James Brown, l’uomo più pieno di sé dello show business, quella sera dovette dare conto, forse per la prima volta in vita sua, a qualcuno di più grande di lui: la “soul people”.

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