American Sniper, la recensione

American SniperEccolo di nuovo in prima fila, il veterano Clint Eastwood, che per la terza volta di seguito parla di storie di vita vissuta, ispirandosi nuovamente a fatti realmente accaduti. Dal grande americano J. Edgar Hoover ai The Four Seasons, il regista passa ora a raccontare le prodezze di Chris Kyle, eroe nazionale per via del suo ineguagliabile talento con il fucile. Kyle è infatti considerato una leggenda (come sottolinea il suo pseudonimo) per gli Stati Uniti: è il più letale cecchino presente sul campo di battaglia in Iraq, dove “i cattivi” stanno dando del filo da torcere ai “buoni”. Arriva fuori tempo massimo, questo testo, ma forse arriva nel momento più opportuno, quando tutti hanno ormai sputato la loro sentenza su American Sniper, esaltandolo a capolavoro oppure affossandolo ad americanata. Questi ultimi dovrebbero pensare al medesimo film, con la medesima storia e le medesime dinamiche, provando a metterlo in mano a registi diversi da Clint Eastwood, e cominciare a costruire la vera americanata: spari, bombe, ralenti ad ogni minuto, Chris Kyle circondato dai nemici ma ben capace di farli fuori tutti da solo (un po’ alla Orgoglio di una nazione, il film nel film di Bastardi senza gloria, per intenderci), il finale palesato davanti agli occhi di tutti, magari con una bella caduta a terra del corpo di Kyle e un tonfo ovattato della sua testa che sbatte sul pavimento, qualche violino, niente immagini di repertorio e, soprattutto, niente vita vera.
Niente moglie, niente figli, niente alternanza Iraq/America per enfatizzare il distacco e l’incomprensibilità di certe scelte, nessun cenno ai suoi problemi, ai suoi dubbi, niente di tutto questo. Clint Eastwood, uomo prima e americano poi, mette in mostra l’essere umano Chris Kyle e lo uccide molto prima, con quel primo piano datato 11 settembre 2001, nel momento in cui il terrorismo invade la mente degli americani e i loro confini, mutando completamente l’immaginario collettivo di una nazione. È lì che l’uomo muore e nasce il cecchino, la macchina da guerra che prima non c’era e che ora è pronta a sparare su uomini, donne e bambini purché rappresentino una minaccia per i suoi compagni, i suoi fratelli. Timoroso, dubbioso e teso, ma anche letale, sicuro e fermo, pronto a svolgere il suo compito senza esitare un secondo, mentre sua moglie resta a casa a preoccuparsi se riuscirà mai a riavere indietro l’uomo di cui si è innamorata. Questa è la guerra, cari spettatori, sembra suggerirci Clint Eastwood, questo è ciò che causa nelle persone: si perdono, cambiano a tal punto da arrivare a pensare che un cane addomesticato è appena diventato un nemico da sconfiggere. E non c’è via d’uscita, cari spettatori, perché dalla guerra non si sfugge: civili, militari, uomini, donne, bambini, la guerra non risparmia nessuno, nemmeno quando si è tornati in patria. C’è un solo modo per far sì che essa cessi di tormentarci, e Clint non lo mostra, ma lo scrive: lo spara in mezzo ad uno schermo nero come un proiettile, a metà tra le immagini di finzione e quelle di repertorio, quasi a volerci suggerire che la linea tra le due questa volta è molto sottile, che fuori da quella piccola sala cinematografica sicura c’è una guerra che non dobbiamo ignorare, nonostante le nostre insignificanti e stupide vite cerchino di distrarci da tutto l’orrore del mondo.
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