Intervista con Eric Lartigau, per il film “La famiglia Bélier”

Eric LartigauCOME È ARRIVATO A QUESTO PROGETTO?

I produttori Philippe Rousselet ed Eric Jehelmann mi hanno mandato la sceneggiatura. All’epoca ero nella fase iniziale di un progetto che desideravo scrivere… sulla famiglia. Dunque, è evidente che si tratta di un tema che non mi abbandona… o meglio che io non abbandono. Malgrado non mi ritenessi disponibile, ho immediatamente detto un enorme e incondizionato «sì» a LA FAMIGLIA BÉLIER.

CHE COSA L’HA SPINTA AD ACCETTARE LA REGIA DI QUESTO FILM?

In realtà non è stata una decisione che ho preso a seguito di una riflessione o di una negoziazione. Sono rimasto profondamente toccato dalla storia. A posteriori potrei ragionare sui motivi per cui certi temi mi sono piaciuti e sulle ragioni che mi hanno portato a scegliere di fare questo film piuttosto che l’altro, ma la verità è che la mia scelta è stata del tutto impulsiva. Non c’è dubbio che la famiglia sia un soggetto universale che, peraltro, è stato trattato migliaia di volte nel cinema. Ma è un tema che mi piace e mi interessa, poiché è il luogo dell’epidermide, è il luogo dove nascono tutte le emozioni primarie, le sensazioni animali. Adoro esplorarlo. Le risate e le lacrime, l’ingiustizia provata da qualcuno confrontata con la verità sentita da qualcun altro. In quanto regista, mi piace non essere costretto a scegliere tra tutti questi modi di sentire. Amo la commedia tanto quanto la tragedia e adoro soprattutto mescolare i due estremi, come accade nella vita reale, quando da una situazione drammatica scaturisce una situazione divertente o assurda…

Il soggetto e la sceneggiatura originali erano di Victoria Bedos. Dopo aver accettato il progetto, rileggendo la sceneggiatura e di comune accordo con lei e con il suo co-sceneggiatore Stanislas Carré de Malberg, ho sentito l’esigenza di fare mia la loro storia… Inizialmente da solo e in seguito insieme a Thomas Bidegain… Ma tutti i temi erano già presenti, avevo giusto bisogno di appropriarmi della storia. A proposito della sua scrittura, Victoria Bedos parla spesso della sua «piccola musica». Mi restava solo da trovare la mia, poiché a quel punto dovevo inventarla in immagini.

CHE COSA L’HA INTERESSATA A TITOLO PERSONALE IN QUESTO RACCONTO?

Innanzitutto il tema della partenza, della separazione vissuta come una lacerazione. È possibile lasciarsi con dolcezza? È possibile amarsi profondamente senza vivere in simbiosi? Come lasciare a ciascuno il suo spazio di libertà? Che ne è del nostro sguardo sull’altro quando cresce ed evolve? E il fatto di amarsi molto non vuol dire necessariamente che ci si ama bene. In una famiglia, che cosa aiuta a costruire, che cosa serve per andare avanti, che cosa ci fa soffocare? Dove posizionare il cursore in queste scelte?

Anche il tema della paura, quella che ti impedisce di agire, quella che ti blocca… La fine dell’adolescenza è un momento cardine della vita. Guardare da lontano il mondo degli adulti nel quale si sta per essere catapultati senza rete può generare terrore. Persino il corpo non è ancora completamente formato. È un’età vibrante e vacillante che mi tocca molto. Raccontare i primi passi incerti di questa giovane ragazza il cui orizzonte si spalanca bruscamente mi ha appassionato. Il percorso di Paula, prima che trovi la sua strada e si assuma la responsabilità del destino che le si profila davanti, appartiene a ciascuno di noi. E sarà anche quello dei miei figli e dei miei nipoti.

E poi trovare il proprio posto. Divenire se stessi. Bisogna per forza tradire un po’ i propri genitori, uccidere il padre, come si suole dire? Del resto, è bello uccidere un padre quando questi, all’improvviso, si rende conto che quest’atto di violenza di fatto altro non è che una rinascita. In quanto genitori, cerchiamo di accompagnare al meglio queste creature così «fragili».

C’È STATO ANCHE L’«INCONTRO» CON LA LINGUA DEI SEGNI…

Sì, a maggior ragione perché, per me, si tratta di una nuova lingua che coabita con quella del mio paese, la Francia. A tutti noi capita di incontrare dei sordi o degli audiolesi, ma non ci sentiamo legittimati ad avvicinarli. Da bambino, ho sperimentato questa situazione con mia cugina Mireille Deschenaux, che cito perché la comunità è di modeste dimensioni rispetto a quella di noi dotati di grandi orecchie! Già allora notavo la difficoltà che lei aveva nel comunicare con gli altri. Fortunatamente, ha avuto una famiglia molto solidale, che le è stata molto vicina. A quei tempi noi non ci ponevamo la domanda della differenza che esisteva fra noi. Da bambini era più facile, più radicale, soprattutto perché giocavamo. Si è riprodotta la stessa situazione con Alexeï Coïca, il professore sordo che ha insegnato agli attori la LSF (Lingua dei segni francese): quando lavorava con loro integrava molti momenti di gioco. È brillante la scelta che compie di insegnare nel piacere. Il processo di apprendimento è più rapido e il registro del gioco permette anche di aumentare la capacità di memorizzazione.

COME OGNI ADOLESCENTE, PAULA HA VOGLIA DI CONDURRE UNA VITA DIVERSA DA QUELLA DEI SUOI GENITORI E QUESTO SUSCITA TENSIONI E INCOMPRENSIONI

Non sappiamo se ha davvero voglia di condurre una vita diversa, non sappiamo neppure se si pone questa domanda. Segue un ritmo di vita già molto sostenuto fino al momento della rivelazione della sua voce… e della prospettiva che questo dono le offre. Il suo professore di musica le apre una porta, ma lei da sola, l’avrebbe scoperta e per giunta avrebbe scelto di varcarla? Subisce più che altro il desiderio dei genitori che vogliono che prosegua lungo la strada che loro le hanno tracciato. Questo è un aspetto interessante della storia: è come se la vita scegliesse per lei. Sarà all’altezza del suo «destino»? Sarà capace di cogliere la sua opportunità e di compiere la svolta che le si palesa nelle parole di Thomasson? Amo la vita quando ti scuote, ti sorprende e ti trascina lungo sentieri imprevisti e amo vedere Paula dibattersi e poi lasciarsi andare ed entrare dolcemente in quello che sarà il suo avvenire, molto diverso da quello che era scritto. Un incontro può essere decisivo nell’esistenza di ciascuno di noi. Louane è magnifica nel suo non-scegliere.

IL FILM SI DIVERTE A CAPOVOLGERE IL CONCETTO DI DIVERSITÀ: PER LA FAMIGLIA BÉLIER, LA NORMALITÀ È ESSERE SORDI

Quello che mi divertiva in questa storia era spingere gli spettatori a chiedersi dove si possa situare la normalità. Sappiamo bene che è lo sguardo degli altri a determinare quello che è normale e quello che non lo è: abbiamo una grande capacità di imprigionarsi in un castello di idee preconcette e una certa propensione ad avventurarci su strade sbagliate. Lavorando a questo progetto, mi sono reso conto che i sordi non hanno lo stesso concetto del rapporto con gli altri degli udenti: sono estremamente diretti e se una cosa non gli sta bene non si fanno scrupoli girandoci attorno, ma al contratto vanno dritti al punto e, a volte, questo loro cogliere l’essenza può apparire volgare. Coloro che escludono al pari di coloro che sono esclusi hanno bisogno di affermare la loro appartenenza. L’istinto gregario riguarda ciascuno di noi, è un difetto che condividiamo tutti.

PER VIA DEL RUOLO CHE SVOLGE ALL’INTERNO DELLA SUA FAMIGLIA, PAULA È COINVOLTA MOLTO DA VICINO NELL’INTIMITÀ DEI SUOI GENITORI.

Fin da giovanissima è stata proiettata nella realtà della vita. È un tessuto drammaturgico molto interessante perché l’universo dei sordi e degli audiolesi è poco conosciuto, piuttosto chiuso e per sua stessa natura poco incline a mescolarsi a quello degli altri. In questo contesto, è possibile immaginare una serie di situazioni sfalsate e tuttavia iperrealiste. Per esempio, la scena nello studio del ginecologo che è molto divertente ma è anche destabilizzante rispetto ai nostri codici: i genitori sono costretti a passare attraverso Paula per parlare della loro sessualità con il medico. I Bélier non sono impudichi: hanno la percezione della realtà del momento e un modo piuttosto pacchiano di esprimersi. Hanno questa capacità di descrivere la loro sessualità senza tabù. È un dato di fatto.

ABBIAMO LA SENSAZIONE CHE PAULA SIA INCASTRATA IN UN RUOLO A METÀ TRA INFANZIA ED ETÀ ADULTA…

Sì, si comporta da adulta quando deve fare da tramite tra i suoi genitori e la società. E, grazie al cielo, è completamente adolescente nel suo rapporto con i ragazzi, con Gabriel che ammira, con le sue compagne di scuola, con la sua migliore amica Mathilde. Ma, oltre alle responsabilità e agli obblighi nei confronti dei genitori che gravano su di lei, sente anche il peso della diversità e della vergogna e, di conseguenza, ha bisogno di venire a patti e nasconde a molte persone che i suoi genitori non sono come gli altri. È paradossale, ma ho l’impressione che lo faccia perché nel fondo lei non vuole renderli diversi.

POSSIAMO DIRE CHE LA SCELTA DI PAULA DI DEDICARSI ALLA MUSICA VIENE VISSUTA COME UN TRADIMENTO DA PARTE DELLA SUA FAMIGLIA?

Sì e anche come un’aggressione! Ma bisogna sottolineare l’ironia della vita: Paula avrebbe potuto avere un’inclinazione naturale per la danza, il calcolo o l’ebanisteria e invece la vita le offre il dono della voce. Che frustrazione per lei e per i suoi genitori il non poter condividere questa sua dote o che possa donare ad altri quello che non può dare ai suoi! È un’interdizione terribile. Ma non è colpa di nessuno…

IL CONTESTO AGRICOLO ERA IMPORTANTE IN QUESTA STORIA?

I sordi sono persone risolutamente tenaci, dotate di un’autentica determinazione: cercano sempre di cogliere gli aspetti essenziali delle cose. Per questo mi è piaciuta l’idea di collocare la famiglia Bélier nell’asprezza del contesto agricolo e mostrare la sua grande capacità di affrontare ogni situazione. Gli agricoltori operano nella catena alimentare che ci fornisce il nutrimento. Devono compiere scelte determinanti per i loro nuclei famigliari. Mi piaceva questo rapporto con la concretezza.

COME È ARRIVATO A SCEGLIERE LOUANE PER INTERPRETARE PAULA?

Agathe Hassenforder, la direttrice del casting, mi ha fatto incontrare tra 60 e 80 ragazze. Cercavamo un’attrice adolescente che sapesse cantare. Sfortunatamente quella che mi piaceva di più aveva la voce peggiore! All’inizio ho pensato che avremmo potuto doppiarla, ma poi mi sono reso conto che sarebbe stato improponibile. Avevo bisogno di cogliere l’emozione della sua voce dal vivo sul set, volevo filmare il corpo mentre canta. L’emozione passa anche attraverso l’epidermide: una canzone è qualcosa che si incarna.

Un mio amico mi ha consigliato di seguire la trasmissione «The Voice» per guardare due giovani cantanti. Ed è stato così che ho scoperto Louane e mi sono sciolto! La cosa che mi è piaciuta in lei è stata la sua fragilità contenuta, come se fosse sul punto di crollare alla fine della prima strofa. Con lei hai sempre la sensazione che tutto si regga su un filo sottile, eppure lei c’è, è presente, è al tempo stesso ancorata e solida. E va fino in fondo, diventa una frase infinita. È Louane. Adoro tanto la sua grazia quanto la sua goffaggine che è quella tipica dell’adolescenza. È molto matura e possiede il senso dell’istante. Non è in grado di calcolare perché non è consapevole di quello che sprigiona. Spero che conserverà questa freschezza il più a lungo possibile. E ha l’eleganza di non cercare mai la macchina da presa. Potevo trovarmi a destra, dietro o a sinistra: lei non si preoccupava mai dello strumento. Non appena l’ho vista provare e l’ho scoperta nel visore della piccola videocamera, mi sono detto che era unica. Ha rivolto uno sguardo particolare nei confronti di Chloé, l’assistente del casting che le dava la battuta e quello sguardo è stato determinante: era Paula. È curioso come una scelta dipenda da poche cose.

E GLI ATTORI CHE INTERPRETANO I RUOLI DEGLI ADULTI?

Ci sono attori sordi straordinari che avrebbero potuto incarnare i genitori di Paula, ma era da molto tempo che avevo un grande desiderio di lavorare con Karin Viard e François Damiens e li ho visti nei panni dei personaggi fin dalla prima lettura della sceneggiatura. L’idea non era di fare un documentario sui sordi. E la tipicità di un attore risiede nella sua capacità di fondersi in un personaggio, di creare insieme a lui un carattere, una singolarità, un mestiere, un atteggiamento. L’arte della composizione del personaggio è intrinseca nel mestiere stesso di attore.

Ho pensato subito a Karin Viard perché volevo fare di Gigi un personaggio esuberante, pieno di fantasia, ma anche autoritario e invadente. Volevo che fosse straripante e sapevo che Karin possedeva la capacità di renderla tale: è in grado di mostrare ogni sorta di eccesso, una dote che io trovo molto seducente. E poi avevo bisogno di una donna che fosse credibile nei panni di una che vende formaggi, che non fosse solamente sofisticata e che avesse conservato un pizzico di provincia. In ogni caso, è quello che io vedo in lei e che, a mio giudizio, le permette di incarnare anche personaggi popolari. Karin possiede questo ventaglio interpretativo. È la sua forza.

François Damiens ha la folle e geniale capacità di essere e non essere. È un uomo che strabocca energia e vitalità. Vive sempre nel presente, a volte con agio disinvolto, altre volte del tutto a disagio, ma riuscendo a sparigliare le carte. Perché è in primo luogo un individuo di una generosità rara. È tutto d’un pezzo. È pieno di vita.

Éric Elmosnino è intenso, dedito alla sua arte. È un ragazzo di una potenza straordinaria che ama scoprire e quindi ascoltare, disfare e rifare al contrario con altrettanto convincimento. Non ha preconcetti, è libero. È magico.

Sono tutti e tre degli attori molto professionali e funzionano in modo estremamente diverso uno dall’altro: ciascuno ha la sua tonalità e rimanda un’energia alquanto diversa, ma sentivo che insieme avrebbero composto un quadro vivo, di grande rilievo, che si sarebbe mosso con affetto attorno a Paula.

IL FRATELLO DI PAULA È INCARNATO DA UN GIOVANE SORDO.

Nella vita reale, Luca è un sordo profondo. Non aveva alcuna esperienza con la macchina da presa. Ha vissuto quest’avventura con grande vitalità e curiosità di scoperta. È un ragazzo gioioso e brillante. Sta sempre al gioco e sullo schermo ha una naturalezza che è molto affascinante. Questa nuova esperienza di vita ha buttato all’aria i suoi codici e i suoi punti di riferimento di bambino ne sono usciti scombussolati. C’è stato un Luca prima delle riprese e un Luca dopo le riprese. È stato incantevole vederlo crescere con noi. Ha un bello sguardo.

I TRE ATTORI UDENTI HANNO PROVATO CON UN COACH SPECIALIZZATO PER ACCOSTARSI ALLA LINGUA DEI SEGNI?

Per un attore, incarnare un audioleso è una sfida appassionante, a maggior ragione considerando che Karin e François sono due attori estremamente chiacchieroni! E in questo caso non hanno avuto una sola battuta di dialogo da pronunciare. Tutta la recitazione doveva essere improntata sui loro gesti e i loro corpi. Un lavoro straordinario.

Abbiamo avuto la fortuna di incontrare le persone giuste: Alexeï Coïca e Jennifer Tederri. Il primo è sordo e professore di LSF, la seconda è un’interprete. Due energie in carne ed ossa a servizio del film. Hanno svolto un ruolo determinante per la strutturazione dell’intera storia. Alexeï è di origine moldava e vive in Francia solo da cinque anni: è incredibilmente determinato e tenace considerando che ha dovuto imparare il francese e la lingua dei segni che si pratica in Francia, visto che ciascun paese ha la sua lingua dei segni. È stato lui a insegnare a Karin e Louane con una pazienza, un’energia e una gioia contagiose. Per quanto riguarda François, in Belgio ha avuto una professoressa sorda, Fabienne Leunis, poiché i sordi sono gli unici a poter insegnare la lingua dei segni a degli udenti. Le lezioni si sono protratte per quattro o cinque mesi, al ritmo intensivo di quattro ore al giorno. Gli attori sono stati al gioco. Del resto, non avevo lasciato loro altra scelta: dovevano imparare a memoria ogni sequenza, senza poter contare sul fatto che avrei potuto artificiosamente cancellare con una piroetta al montaggio eventuali segni sbagliati. E infatti, una volta sul set, il fatto che conoscessero a menadito i dialoghi ha reso loro la vita più facile. Erano pronti a recitare e a farsi dirigere.

È UN’ESPERIENZA INEDITA PER DEGLI ATTORI E ANCOR PIÙ PER UNA GIOVANE ATTRICE ESORDIENTE COME LOUANE…

La lingua dei segni è ultra rapida, molto complessa e di una grande ricchezza. Il volto deve essere in accordo con il segno che si intende esprimere: a seconda dell’espressione facciale, il segno viene compreso in modo diverso. Ma poiché ogni persona è unica, ciascuno ha una propria gestualità che gli si confà. È un’avventura per un attore a cui vengono forniti strumenti diversi da quelli che ha a disposizione normalmente e attraverso i quali il corpo deve sostituire la voce. Per Louane, si è trattato di un esercizio particolarmente complesso poiché il suo personaggio deve tradurre verbalmente quello che dicono i suoi genitori e al tempo stesso usare i segni, E parlare e «segnare» simultaneamente è molto complicato poiché la sintassi delle due lingue è molto diversa. Quindi Louane ha accettato di fare una scommessa straordinaria.

HA AVUTO LA SENSAZIONE DI DIRIGERE GLI ATTORI IN MODO DIVERSO RISPETTO AI SUOI FILM PRECEDENTI?

Curiosamente non c’è una reale differenza nella direzione degli attori rispetto agli interpreti che devono recitare un testo parlato. L’espressione è di per sé un linguaggio. Per lo stesso motivo per cui un campo lungo di paesaggio, senza dialoghi, «parla» ugualmente allo spettatore. «Segnando» gli attori si esprimono in una maniera diversa ma trasmettono comunque le loro riflessioni al mondo esterno. È quello che amo nei coniugi Bélier: il loro handicap non è un impedimento. Il padre vuole presentarsi alle elezioni perché non è d’accordo con il sindaco in carica. Chiunque direbbe che è un inetto e si fermerebbe con questa affermazione. Rodolphe no: prende posizione, decide di candidarsi e si mette in moto. Con grande disperazione di Paula che si vede aggiungere un ulteriore compito.

Per quanto riguarda l’identità e la personalità di ciascun personaggio, mi sono fatto un’idea piuttosto precisa di ognuno degli attori. La madre è una donna un po’ invadente, molto presente, ma in grado di generare un’energia fisica interessante. Al suo fianco il padre, che sta più in disparte ed più burbero: a volte mette il broncio e non lo nasconde. Il loro figlio Quentin, al centro di questa famiglia, incarna il ragazzino che sta scoprendo se stesso. Con la troupe, vivevamo le scene in modo naturale: il principio era lo stesso di qualsiasi altro film. Alla fine di una ripresa, sapevo intuitivamente in quale direzione dovevamo andare. Invece, esigevo una grande precisione sugli spostamenti per rispettare quella «musica» che si esprime attraverso la lingua dei segni. Nello spazio, il segno costituisce un vantaggio: impone una sorta di coreografia, è visivo e dunque di fatto ideale per l’immagine. La differenza rispetto a un set tradizionale stava nel fatto che alla fine di ogni ripresa avevo bisogno di avere l’avvallo di Alexeï e di Jennifer che dovevano confermarmi la giustezza dei segni. Durante il montaggio, insieme a Jennifer Augé, ho molto seguito questo ritmo imposto. Avevo assimilato la lingua dei segni solo da pochi mesi, ma tuttavia era ormai parte integrante della narrazione. E ha trovato la sua collocazione con grande naturalezza.

QUALI SONO STATE LE SUE PRIORITÀ PER QUANTO RIGUARDA LA REGIA?

Detesto fare uno storyboard. Al contrario, preparo la scansione delle scene la sera per l’indomani. All’inizio non voglio costringermi a entrare in uno schema preciso in cui tutto è stato fissato per iscritto. Certo, durante la scrittura, mi annoto delle idee di inquadratura sul mio copione. Preferisco lavorare sugli spostamenti e suoi movimenti di macchina scrivendomi degli appunti e aspettare di fatto di scoprire le scene sul set. Poi, una volta che mi sono immerso nei luoghi, idealmente almeno una settimana prima che arrivi il reparto logistica del set, lavoro con l’ambiente spoglio, senza cavi, proiettori e macchine da presa che riempiono troppo in fretta lo spazio che io e lo scenografo ci siamo creati. È stimolante lavorare su una scena con una persona come Olivier Radot. Tra noi c’è uno scambio di idee molto vivace.

La fotografia e l’inquadratura sono sempre stati importanti per me. In passato mi sono dedicato a lungo alla fotografia e per un certo periodo ho lavorato circondato da quadri, poiché ho fatto l’assistente una casa d’aste. L’arte affina lo sguardo.

Anche se tutto è perfettamente scritto e ho il film bene in mente, l’esperienza mi ha insegnato a privilegiare il momento e la verità del set. L’idea di una scena non vale nulla al confronto del presente. Voglio rendermi disponibile a quello che vedo, così come voglio che i miei attori siano disponibili verso quello che avviene tra loro. Sono i limiti della preparazione.

E per di più, al montaggio, il film diventa un altro.

PERCHÉ HA SCELTO MICHEL SARDOU PER IL REPERTORIO DI PAULA?

È stata un’idea di Victoria Bedos nella sceneggiatura iniziale. Se si passano in rassegna i più grandi cantanti popolari viventi presenti nell’inconscio collettivo, la risposta si impone da sola. E per di più, le canzoni di Michel Sardou raccontavano la storia di Paula.

CHE INTENZIONI AVEVA PER LE MUSICHE ORIGINALI?

Sono state composte da Evgueni e Sacha Galperine, con cui avevo già lavorato per SCATTI RUBATI. Mi piace molto il loro universo e adoro lavorare con loro perché creano una musica che ha un certo sfasamento, pur sprigionando l’emozione in modo giusto, senza mai enfatizzare. Quando inseriscono un accordo di violino, risuona in maniera curiosa, pur restando sottile e puro. Al tempo stesso, ogni movimento è di una grande complessità e originalità che sono le loro cifre stilistiche. Non sono mai demagogici. Hanno un universo che è contemporaneamente ricco e umile.

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