Intervista a Sergio Di Lino, direttore artistico dell’Overlook 2014 – CinemAvvenire Film Festival

Sergio Di LinoSergio Di Lino, dottore di ricerca in discipline cinematografiche presso l’Università degli Studi Roma 3, è responsabile delle attività cinematografiche dell’Associazione Centro Internazionale CinemAvvenire, Direttore della testata online CinemAvvenire.it e Direttore del CinemAvvenire Film Festival. Responsabile e organizzatore di numerose rassegne a carattere cinematografico, è stato per quattro anni Vicedirettore dell’Asian Film Festival. Collabora con la testata HKX.it ed è autore di numerosi saggi sul cinema apparsi su riviste specializzate o in volumi collettanei.

Intervista a Sergio Di Lino, direttore artistico dell’Overlook 2014  – CinemAvvenire Film Festival

Come nasce il progetto?
Overlook 2014 è la naturale evoluzione del CinemAvvenire Video Festival, un’iniziativa che la nostra associazione ha messo in cantiere nel 2010 con spirito ai limiti del “dopolavoristico”, nell’accezione migliore del termine se mai ne esiste una. Avevamo un bellissimo spazio nel cuore di Roma, nel quartiere San Lorenzo, avevamo investito denaro ed energie per ristrutturarlo e ricavarne una piccola sala da 50 posti a sedere, e volevamo valorizzarla. Quella di rivolgerci al mondo del cortometraggio è stata una proposta sgorgata in maniera quasi spontanea. Negli anni passati avevo maturato una certa esperienza con l’organizzazione di festival e rassegne a carattere cinematografico, non solo con CinemAvvenire. La nascita del festival mi ha consentito di metterla a frutto con un progetto che fosse realmente mio dal punto di vista della creatività, dell’organizzazione e delle linee guida, e per me è stato un grande salto di qualità rispetto a quando lavoravo assecondando direttive pensate da altri, e che magari non condividevo al cento per cento. Gli ostacoli erano molti, praticamente non avevamo un budget e l’unico benefit era la piena disponibilità della sala, ma ci abbiamo provato lo stesso: i risultati sono andati ben oltre le nostre più rosee aspettative, e questo ci ha incoraggiato a proseguire malgrado la situazione, dal punto di vista delle disponibilità economiche, non stesse crescendo di concerto con il prestigio del festival, che già nella seconda edizione aveva varcato i confini nazionali e ospitava corti da tutto il mondo. Siamo andati avanti per quattro anni in queste condizioni, fino a quando, per questa quinta edizione, abbiamo deciso di rilanciare: abbiamo cercato fondi ulteriori per uscire dalla logica, appagante ma di corto respiro, del volontariato, ci siamo messi a caccia di nuove sedi da affiancare alla nostra, abbiamo aperto ai lungometraggi e aumentato la gittata della nostra ricerca sul campo. La trasformazione da “video festival” a “film festival” si è, di fatto, compiuta così, e ancora una volta i numeri hanno confortato le nostre ambizioni, che all’inizio sembravano smisurate anche a noi: in un anno scarso di lavoro abbiamo valutato circa 2000 opere fra corti e lunghi, e ne abbiamo selezionate 300; abbiamo tredici sezioni, di cui otto competitive, spalmate su quattro sale, e film che provengono da oltre 50 paesi, inclusi il Kenya, l’Uganda, la Bielorussia, il Kosovo, il Kazakhistan… Possiamo dire, con una punta di orgoglio, che siamo arrivati praticamente ovunque, e il fatto di aver ricevuto questo enorme investimento di fiducia da parte di cineasti di ogni latitudine ci gratifica, ci responsabilizza e soprattutto ci dà coraggio per il futuro, che è forse la cosa di cui abbiamo più bisogno.


Come è cambiato il cinema oggi rispetto a quello di Gillo Pontecorvo?
Pontecorvo è stato un cineasta particolare, piuttosto al di fuori degli schemi. Non aveva avuto una formazione cinematografica ortodossa, era arrivato al cinema per vie traverse, dopo aver maturato esperienze di vita alquanto eclettiche: giovane promessa del tennis, poi capo partigiano… Si può affermare che il suo apprendistato sia stato la vita, la cinefilia e il “mestiere” erano degli elementi accessori, maturati in una fase successiva, in parte anche cammin facendo. In questo senso, mi sembra che la pratica cinematografica contemporanea, piuttosto che marcare un cambiamento, si stia avvicinando al cinema come era concepito da Pontecorvo, ovvero qualcosa pensato e realizzato come prolungamento dell’esperienza individuale, non necessariamente come una professione. Sempre più spesso, infatti, i cineasti di oggi, parlo ovviamente di filmmaker indipendenti, provengono da situazioni professionali differenti, non fanno il “lavoro” del regista, peraltro sempre più incerto e meno remunerativo, ma utilizzano il cinema come forma di espressione di se stessi, del loro mondo, di un universo relazionale che vogliono condividere con una pluralità di persone altrimenti irraggiungibile. Il vero cambiamento è questo: il cinema non mainstream si sta avviando a essere sempre più diaristico, sempre più vicino a ciò che i cineasti vivono. Le tecnologie leggere, sempre più economiche e accessibili, favoriscono questo approccio, al punto che, secondo me, la stessa distinzione fra professionismo e amatorialità sta diventando rapidamente obsoleta. Mai come oggi, io credo, la gente impara rapidamente a esprimersi con le immagini, l’unico problema per chi fa un lavoro come il mio è quello di separare il grano dal loglio e di individuare i pezzi di cinema – o di audiovisivo, in un senso più ampio – realmente validi, isolandoli dal mero narcisismo della messa in scena e dall’effetto-selfie, che è forse il pericolo latente più sensibile di questi tempi. Ma è altrettanto ovvio che, se si guarda la cosa da un punto di vista storico e sociologico, oggi stiamo vivendo un’epoca altamente eccitante, che penso sarebbe piaciuta molto a Pontecorvo, ma anche a Zavattini, Astruc, Bazin… Magari, non so, a Kubrick un po’ meno, ma chi può dirlo?

Come ti sei mosso in questi anni per creare la programmazione di Overlook?
Quest’anno c’è stato un ovvio cambio di registro rispetto agli scorsi anni. Prima, tutto sommato, era sufficiente lanciare un bando di concorso e raccoglierne i frutti modello rete a strascico, per poi procedere alla selezione. Avevamo due sezioni competitive molto flat come tipologia, una di fiction e una di documentari, poi riempivamo il fuori concorso con le opere che, per un motivo o per l’altro, non eravamo riusciti a includere altrove. Per il 2014, abbiamo fatto di tutto per complicarci la vita, ma la reputazione che ci siamo costruiti nei precedenti quattro anni ci ha aiutati in tal senso. Ci sono registi dagli Stati Uniti, o dal Belgio, o dalla Spagna, che ormai ci considerano dei referenti di fiducia per quanto riguarda l’Italia e continuano a inviarci, di anno in anno, i loro lavori. Abbiamo fissato delle regole rigide in merito alla data di realizzazione dei film, abbiamo preteso che i lungometraggi stranieri fossero inediti in Italia e abbiamo accettato appena due deroghe su 93 titoli. Il lavoro più duro è stato progettare delle sezioni credibili e al tempo stesso originali, effettuare una selezione che si è rivelata dura soprattutto per le rinunce che ha comportato, e soprattutto organizzare il palinsesto senza creare troppi conflitti, cercando anche di accontentare le richieste del maggior numero possibile di registi e produttori circa le date degli screening. Alla fine, questo è soprattutto un lavoro di relazioni a metà fra l’amicale e il diplomatico e in fondo è questo il bello e al tempo stesso il difficile, di organizzare un festival di queste dimensioni con i mezzi limitati che tuttora abbiamo. Per dire, oggi non abbiamo la possibilità di andare all’American Film Market o al Marché di Cannes a fare incetta di esclusive pagandole profumatamente, pertanto dobbiamo conquistarci la fiducia dei registi uno per uno, facendo leva sulla serietà e sulla credibilità del nostro lavoro. Ovviamente speriamo che in futuro, proprio in virtù della reputazione che ci stiamo costruendo, il nostro lavoro vada semplificandosi.

Che cosa ti immagini per il festival tra qualche anno?

Il nostro lavoro è in continua evoluzione, e ovviamente risentirà delle immancabili sollecitazioni esterne che ne modificheranno la fisionomia, ma siamo assolutamente pronti a questo. La nostra forza, al di là del fatto di essere considerati più o meno bravi, è quella di saperci adattare con rapidità ai cambiamenti, anche bruschi, che tutte le iniziative a carattere culturale sono costrette a subire oggigiorno, tra finanziamenti che spariscono all’ultimo momento e repentine indisponibilità logistiche. Tanto che, un po’ per gioco, un po’ per provocazione, il festival cambierà nome ogni anno: nel 2015 al posto di Overlook ci sarà un’altra parola, mentre solo il “patronimico” CinemAvvenire Film Festival resterà invariato. Certamente, nei prossimi anni vorremmo avere qualche certezza in più sul piano finanziario, ma questo è un discorso a parte, che non riguarda i principi che animeranno il festival. Dal punto di vista della struttura, e di come esso è percepito all’esterno, avrei piacere che il festival diventasse, nel giro di due-tre anni, il punto di riferimento per l’Italia del cinema indipendente e dei filmmaker esordienti, visto che un po’ tutti i grandi festival, presi dalla caccia al capolavoro o dalla ricerca di testimonial, stanno un po’ mollando da questo punto di vista. E visto che i film non mancano, chissà, anche l’idea di lavorare su una “summer edition” da affiancare a quella invernale potrebbe concretizzarsi nel giro di qualche edizione.

Come mai la scelta di un festival “itinerante?
L’idea nasce dalla partecipazione a un bando per accedere ai contributi dell’Unione Europea. Il criterio della cosiddetta dissemination in altri Paesi UE era uno dei requisiti cardine della valutazione, così ci siamo messi alla ricerca di eventuali partnership e abbiamo stretto accordi con associazioni affini alla nostra in Inghilterra, Bulgaria e Croazia, dove nel 2015 porteremo un’antologia del festival. Lo scopo è ovviamente, come dicevo prima, quello di aumentare la nostra reputazione e credibilità, così abbiamo cominciato a muoverci autonomamente anche su territori extra-UE: al momento, stiamo lavorando per una dépendance a Boston, speriamo di avere successo.


Ospiti? Importanti, conosciuti o non importa? 

Non sono schiavo del red carpet, anzi a dirla tutta è la parte dei festival che in generale mi annoia di più. Detto ciò, se l’ospite è funzionale e organico a un certo tipo di discorso ben venga. So bene che un testimonial può aiutare la promozione dell’evento ma sono contrario all’idea di appiccicarmi addosso una faccia celebre come se fosse una coccarda o una mostrina: lo trovo svilente per noi e anche per il legittimo proprietario di quella faccia. Detto ciò, ospiti ne abbiamo anche quest’anno, anche se magari non famosi… Per il prossimo, invece, ho già qualche idea su come coinvolgere attivamente e, per l’appunto, organicamente, personalità dello spettacolo e della cultura, anche se a me non piace appesantire troppo la visione dei film. Preferisco semmai avere ospiti prestigiosi per gli eventi collaterali: ad esempio, se quest’anno avessimo avuto a disposizione una soluzione logistica che poi ci è stata negata quasi all’ultimo minuto con una mossa a dir poco proditoria, avevo un accordo di massima con Quentin Dupieux, che sarebbe venuto nella duplice veste di cineasta, per una retrospettiva dei suoi lavori, e di musicista, con un DJ set. Per motivi non dipendenti dalla nostra volontà la cosa non è stata possibile, ma tornerò alla carica il prossimo anno.

Difficoltà politiche e finanziarie, le vuoi raccontare?

Bisognerebbe scriverci un romanzo. Tuttora lavoriamo con un budget che il Festival Internazionale del Film di Roma, che ha molti meno film di noi, utilizzerà sì e no per le fotocopie. Al tempo stesso, mi rendo conto che le amministrazioni pubbliche, sia locali che nazionali, al di là di come la si possa pensare circa il loro operato, hanno in agenda delle urgenze molto più stringenti di un festival di cinema, e devono rispondere alla cittadinanza in merito a ben altre priorità. L’unica cosa che vorrei è un po’ più di attenzione nel valutare i progetti, perché l’impressione è che spesso ci sia quantomeno una certa superficialità nel liquidarli come qualcosa di rinunciabile o di liquidabile con cifre poco più che simboliche. Al tempo stesso, anche noi dovremo imparare a muoverci con maggiore abilità, soprattutto presso i privati, e abbiamo già sondato alcuni professionisti per muoverci in tal senso. Nei paesi anglosassoni sta conquistando spazi sempre maggiori l’idea del pop-up event, ovvero eventi realizzati in luoghi inizialmente concepiti per qualcosa di completamente diverso. Noi ci stiamo avvicinando poco alla volta a questo tipo di concezione, che permette un’enorme flessibilità in termini di costi vivi, ma per compiere definitivamente questo passo serve una complicità assoluta da parte del territorio e dei suoi abitanti. E qui si apre un fronte ulteriore, non meno complesso, perché San Lorenzo è una specie di borgo la cui morfologia è stata sottoposta negli ultimi anni a violente mutazioni, e che di conseguenza vive dei conflitti interni anche aspri. E pertanto è difficile far convivere tanti interessi tra loro divergenti. O meglio: si tratta di un lavoro lungo, che certo non si esaurisce con questa edizione; anzi, semmai comincia proprio da qui.

Puoi presentarci lo staff organizzativo?
A parte me in qualità di direttore e ideatore del festival, il nucleo centrale dello staff è composto da altre tre persone. Gabriele Giampieri è il vicedirettore, e come tutti i vicedirettori – parlo per esperienza personale – è sottoposto a uno stress notevole dal momento che le incombenze più spiacevoli toccano a lui di default; ma se la sta cavando benissimo, soprattutto nel mettere ordine fra le richieste, spesso paradossali, di attori, registi e produttori. Federica Colella è stata allieva di un corso di formazione di CinemAvvenire: l’abbiamo coinvolta in corso d’opera per supportare Gabriele nelle mansioni più delicate e ora è la nostra Board Office Manager, in pratica la custode di tutti i dati sensibili del festival. Paolo Patarca si è sempre occupato di organizzazione e logistica per tutte le attività di CinemAvvenire, almeno da quando ne ho memoria io; per quanto riguarda il festival lui è il direttore organizzativo: Paolo è il nostro Mr. Wolf, se c’è un problema lo risolve lui, come due giorni fa quando ci ha rimesso in piedi in mezza mattinata un proiettore che aveva avuto la brillante idea di bruciarsi subito dopo le prime proiezioni. A questi va aggiunto Guido Massimo Calanca, che ci ha supportato per tutto ciò che riguarda l’aspetto tecnico delle proiezioni, oltre ad aver ideato la bellissima sigla del festival. Massimo Calanca e Giuliana Montesanto, rispettivamente Presidente e Vicepresidente di CinemAvvenire, che hanno sostenuto e sostengono, con un entusiasmo pazzesco e
 non senza sacrifici, un’idea folle come questa. Maurizio Fraschetti, eccellente fotografo che per l’occasione ha curato da vicino, e con grande passione, la retrospettiva Pontecorvo. Carlo Dutto, il nostro indispensabile ufficio stampa. Infine, un gruppo di giovani allevi dell’Accademia Griffith che con molto impegno ci stanno aiutando nelle incombenze quotidiane delle proiezioni. Non è uno staff enorme, ma compensiamo con la duttilità che in questi casi risulta indispensabile: perché è chiaro che, in situazioni di necessità, non esistono gerarchie e tutti fanno tutto nel più ampio spirito di collaborazione. Sarà bello, forse, fra qualche anno, quando il festival si sarà stabilizzato, guardarci indietro e scoprire di non avere rimpianti per questi sforzi un po’ pionieristici, perché tale e tanta sarà l’evoluzione del festival da non lasciare spazio alla nostalgia. Per questo stiamo lavorando: per realizzare una bella edizione, ma soprattutto per porre le basi perché quella dell’anno successivo sia addirittura migliore.
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