Haiti, storie di dolore e speranza: Lovely e lo sfruttamento minorile

RS4664_Lovely-scrProteggere i bambini di Haiti dallo sfruttamento è molto difficile. Save the Children lavora ad Haiti con altre organizzazioni di protezione dell’infanzia e per promuovere i diritti dei bambini, prevenire e difenderli da abusi e sfruttamento. I partner con i quali opera Save the Children nelle comunità e che lavorano contro gli abusi domestici, si trovano in alcuni dei quartieri più poveri della zona metropolitana di Port au Prince. I partner svolgono attività di sensibilizzazione nelle comunità, offrendo formazione per i genitori e anche ai bambini vulnerabili, che sono costretti al lavoro di servitù domestica.

La servitù domestica è una pratica comune ad Haiti: si stima che circa 225.000 bambini siano a rischio (fonte: Agenzia per la protezione di Haiti, PADF). Parliamo di bambini di appena 8 anni che hanno il compito di preparare i pasti, di andare a prendere l’acqua dal pozzo locale, di pulire le abitazioni fuori e dentro, di fare il bucato e di mantenere puliti dalle deiezioni i malati allettati. Spesso dormono sul pavimento divisi dai membri della famiglia per i quali prestano servizio e si alzano all’alba prima di chiunque altro per fare i lavori domestici. Molti di loro vengono abusati fisicamente, sessualmente ed emotivamente e vengono fortemente stigmatizzati.

Nella maggior parte dei casi i genitori o la loro famiglia allargata sono troppo poveri per provvedere a loro e li hanno affidati ad un’altra famiglia nella speranza che questa invece possa farlo. In cambio del fatto che i bambini si occupano delle faccende domestiche, la famiglia fornisce loro vitto, alloggio e l’accesso ad un’istruzione che la famiglia d’origine non potrebbe permettersi. Purtroppo raramente tutto questo accade e i bambini vengono spesso affidati ad una famiglia altrettanto povera che non ha le risorse per fornire le stesse cose neanche ai propri figli.

La storia di Lovely, raccontata da lei stessa:

“Sia mia madre che mio padre sono morti. Quando sono morti mio zio è venuto a prendermi e mia portato a casa di una signora che mi maltrattava e mi picchiava. Non sapevo cosa stesse per fare, non sapevo che mi stava lasciando lì.

Sono stata presa da un’altra donna e anche lei mi ha maltrattato e poi mi ha cacciata. Poi ancora un’altra donna e anche questa mi ha maltrattato e poi cacciato via. Anche dove lavoro ora mi picchiano e mi fanno lavorare tutta la notte e tutto il giorno.

Mi alzo presto, verso le 4 del mattino, per fare i lavoro di casa, lavare i piatti, spazzare per terra, portare l’acqua e rassettare. Lavoro per una donna e un uomo. Cucino ogni giorno verdure, riso, ma non mi danno mai cibo per me. Quando mi fanno cucinare, prendono sempre il loro cibo e a me lasciano il fondo della pentola.

Chiamo questa signora “matant”. Noi non siamo una famiglia. Lei mi chiama “fi ti”, bambina, quando ha bisogno che io faccia qualcosa per lei o che le vada a prendere qualcosa. A volte mi chiama col mio nome, Lovely.

A volte mi hanno picchiato e non mi danno abbastanza da mangiare. Per esempio se mi danno da mangiare adesso, non potrò avere più niente fino a domani. Mi picchiano perché non ho una madre né un padre e mi insultano, quando mi picchiano. Ho paura dove vivo ora, perché non so cosa quella donna potrebbe farmi. Non mi piace stare lì, non mi sento bene, sto male.

Mi gridano sempre contro, non so perché, perché io non faccio e non dico cose che possano metterli a disagio o farli vergognare. Non ho amici, perché le persone per cui lavoro non mi lasciano parlare con la gente. Sono potuta venire qui oggi solo perché loro non c’erano e non sanno che sono fuori casa.

Non vado a scuola, prima ci andavo, ho fatto la terza, ma da quando mia madre e mio padre sono morti, non sono più tornata a scuola. Ci vorrei andare, per diventare qualcuno un domani, anche se non so cosa vorrei essere.

La signora che mi ha portato qui stamattina è una vicina di casa e un giorno mi ha visto che piangevo e mi ha portato del cibo. Mi porta ancora del cibo. Loro non sanno che Sherline, la donna che mi dà del cibo, è mia amica. Quando vado a prendere l’acqua al pomeriggio, io la cerco e lei mi da qualcosa da mangiare o dei vestiti. Mi siedo da qualche parte e mangio, in modo che nessuno possa saperlo.

Se mia madre e mio padre fossero vivi, io non sarei in questa situazione. Sarei amata e protetta. Io non so che i bambini hanno dei diritti, non lo sapevo. Vorrei dire ai bambini che sono nella mia stessa condizione, ma anche ai bambini che hanno ancora la mamma o il papà, o a quelli come me che non li hanno più, di non scoraggiarsi, perché la vita è come una palla e gira e rigira e non sai mai quello che può capitarti”.

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