Whiplash, la recensione

Whiplash postrIl giovane e promettente batterista Andrew, figlio di un professore di liceo intenzionato a diventare un grande della musica jazz, affronta la sfida più importante della sua vita quando, al primo anno di una delle più prestigiose scuole di New York, viene selezionato per l’orchestra della stessa da Fletcher, il professore più temuto dell’istituto, un uomo noto per il suo temperamento esplosivo e per i metodi decisamente militari.

Salito alla ribalta grazie ad una casualità, Andrew si trova dapprima ad essere l’astro nascente dell’orchestra e ad abbandonare ogni legame che lo possa distrarre dalla musica, dunque vittima prescelta di Fletcher, in bilico tra la crisi e l’abisso.
Un drammatico incidente – dentro e fuori la scena – allontanerà il ragazzo dalla batteria e dall’ambiente per qualche mese, prima che l’incontro con lo stesso ex insegnante apra di nuovo le porte del jazz ad Andrew: come andrà il suo ritorno dietro casse e pedali?

C’è stato un momento della mia vita – coincidente, grossomodo, con il passaggio tra il quarto ed il quinto anno delle superiori -, in cui scrivevo ogni giorno, cercando di mettere tutto me stesso nella pagina che avevo di fronte: una cosa che continuo a fare ancora oggi, giorno più, giorno meno, soprattutto grazie al blog, ma senza dubbio portata avanti con un approccio differente.
Ai tempi ero un vero stronzo, speravo che le mie storielle da adolescente finissero sempre entro il mese perchè vedevo molti miei amici prodigarsi per un regalo allo scoccare del fatidico primo “versario”, trattavo la maggior parte delle persone che avevo attorno con supponenza e ritenevo grandi le stronzate che buttavo sulla carta, neanche fossi un novello Rimbaud o cazzate di questo genere.
E mi sentivo come Andrew in un momento preciso di Whiplash.
Quello in cui il suo ex insegnante Fletcher dichiara di non aver mai avuto un Charlie Parker da tramutare in Bird.
E tu, che te lo senti dire, pensi ancora di esserlo.
In questo senso, il film di Damien Chazelle descrive molto bene il rapporto tra insegnanti ed allievi e tra genitori e figli – la figura del padre dello stesso Andrew, delineata solo sullo sfondo, risulta di gran lunga la più profonda ed interessante della pellicola -, e riesce a fotografare molto bene – oltre allo stesso prodotto, confezionato davvero alla grande nella sua parte tecnica – la sensazione che si accarezza quando, all’inizio della propria vita – perchè, di fatto, gli anni dell’adolescenza e quelli appena successivi sono solo il principio del viaggio che si compie nel mondo -, si pensa di essere più speciali degli altri, soprattutto se si accarezzano sogni di natura artistica.
Per quella che è stata la mia esperienza personale posso dire che è senza dubbio vero che alcuni di quelli che sacrificano tutto – ma proprio tutto – finiscono per raggiungere il successo ambito, ma che non sempre il prezzo da pagare vale quello stesso successo: la discussione a tavola di Andrew con i parenti a proposito di Charlie Parker è emblematica, in questo senso.
Vent’anni fa avrei detto che sarebbe stato meglio morire attorno ai trent’anni circondato dall’aura di genio assoluto, ora penso che non c’è genio che tenga, o opera immortale che compensi la sensazione che provo quando il Fordino mi sorride, o mi abbraccia, o quando si va a prenderlo al nido, e gli si illumina il viso appena ci vede.
Del resto, all’epoca avrei odiato un insegnante come Fletcher – bravo J. K. Simmons, anche se non così miracoloso come mi è capitato di leggere in giro -, tanto quanto avrei amato un Keating: la verità è che nessuno dei due è un buon insegnante, e nessuno dei due sarà mai in grado di fare quello che un insegnante ha il compito di fare, quasi come fosse un padre.
Proteggere i suoi allievi.
Non tanto da lui, o dalla materia di studio, quanto dal mondo attorno, che non regala niente a nessuno, neppure ai cosiddetti “grandi”.
Tanto Fletcher forza la mano rischiando di tarpare le ali ai talentuosi più fragili, tanto Keating rischia il tutto per tutto illudendo anche i non talentuosi di potercela fare.
E la cosa più terribile è che non si arriverà mai ad una soluzione, in questo senso: perchè quello dell’insegnante è un ruolo terribilmente scomodo, una sorta di genitore senza legami affettivi, privo del vantaggio che gli stessi legami di sangue possono portare: l’insegnante è qualcuno del quale possiamo anche fare a meno, nel momento in cui la magia si spezza.
Eppure, allo stesso modo, deve essere presente, e farci sentire quanto sia importante che non si molli, che si dia il meglio, che ci si guardi le spalle per non cadere.
Osservando le cose da questa prospettiva il lavoro di Chazelle non fa una grinza, è tosto e tenace come l’insegnante più interessante o come lo studente più promettente, regge il ritmo e regala anche momenti di ottimo Cinema: eppure, saranno le fin troppo numerose recensioni entusiastiche o la sensazione di aver assistito “soltanto” ad uno sfoggio davvero notevole di tecnica e capacità di avvincere il pubblico, ma non credo di aver avuto di fronte, a conti fatti, un Charlie Parker.
In questo senso c’è un signore che di insegnamenti e rapporti tra padri e figli se ne intende parecchio che, ormai quasi trent’anni fa, è riuscito senza ombra di dubbio a portare sullo schermo non, per l’appunto, lo stesso Charlie Parker, ma Bird.
Quel signore di chiama Clint Eastwood, forse il punto d’incontro migliore tra Keating e Fletcher.
E la cosa curiosa è che, nel corso dell’imminente notte degli Oscar, a vincere non sarà il vecchio cowboy tanto quanto Chazelle, giovane che con ogni probabilità si crede un genio.
Non lo è.
Ma non merita neppure di essere preso a calci.
Quantomeno a priori.
Merita di essere compreso, palleggiato tra un abbraccio ed un rimprovero.
E poi di nuovo nella mischia.
Pronto ad un assolo che potrebbe essere decisivo.

MrFord

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