Confusi e felici: gli effetti collaterali di Vizio di forma

Vizio di formaGordita Beach, Los Angeles 1970. E’ passato solo un anno dall’utopia di Woodstock e gli ideali di pace a amore del movimento hippie stanno cominciando a naufragare, divorati dall’eroina e dispersi in mille rivoli, incluse le derive deliranti come quella di Charles Manson e della sua Family, che diede il colpo di grazia alla controcultura esplosa con la Summer of love del 1967. Milioni di giovani e sognatori si ritrovarono a passare, con un traumatico risveglio, dall’età dell’innocenza agli anni ’70 di Nixon. Vedere questo film senza aver presente un minimo di contesto storico e magari non conoscendo la filmografia di Paul Thomas Anderson si può correre il rischio di fare la fine dei due ragazzi seduti al cinema nella mia fila: dopo aver ridacchiato per venti minuti ai dialoghi surreali e alle gag di Phoenix, all’inizio del secondo tempo se ne sono andati scoraggiati.

Riassumere la trama è un esercizio quasi impossibile quanto inutile per la mole dei personaggi e la decostruzione dissacrante del noir che opera Anderson.
Sortilège (la cantautrice Joanna Newsom) è la voce narrante, una specie di oracolo capace di entrare nella vita interiore delle persone con una visione d’insieme superiore. Sarà lei a introdurci nella vita incasinata di Doc Sportello (un Joaquin Phoenix incommensurabile vestito come Neil Young), detective privato alternativo, sognatore e accanito consumatore di marijuana. In seguito alla richiesta d’aiuto della sua ex-ragazza, preoccupata per le sorti del suo amante, magnate delle costruzioni, Doc si ritrova in un garbuglio inestricabile di situazioni e personaggi che aumentano inesorabilmente a fronte degli appunti concisi che ogni tanto scrive nel suo taccuino.
Smarrirsi in Vizio di forma è facile ma non è un problema, basta lasciarsi andare al flusso come Doc (gli occhi persi di Phoenix raccontano tutto), anzi è quasi più importante che trovare una bussola, anche perché le indagini passano ben presto in secondo piano per raccontare lo smarrimento di un’epoca e il crollo delle illusioni: dall’amore libero che diventa merce di scambio, al mito delle droghe che liberano la mente soppiantate da quelle pesanti e infine dal pacifismo corroso dalla violenza e dal business.
Il mio stato d’animo all’uscita della sala? Confuso e felice, come se gli effluvi delle decine di cannoni fossero usciti dallo schermo. Rapito dai dialoghi dilatati e meravigliosi, per una colonna sonora a base di Can, Jonny Greenwood, Neil Young e grazie ad una galleria di personaggi memorabili (Big Foot – Josh Brolin su tutti) che lasciano il segno. Qualche momento di stanca non manca e forse restare nelle due ore non sarebbe stato male. Non è il migliore film di Anderson, Magnolia resta nell’olimpo, ma come al solito siamo ad un livello che in pochi si possono permettere. Nell’America del nuovo millennio, nessuno meglio di lui è riuscito a raccogliere l’eredità di un regista come Robert Altman.
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