Intervista con Karin Viard, per il film “La famiglia Bélier”

Karin ViardCOME È ARRIVATA A FAR PARTE DEL FILM?

È stato Eric Lartigau a contattarmi perché ci conoscevamo e avevamo entrambi il desiderio di lavorare insieme. Purtroppo quando mi ha proposto il ruolo ero già impegnata con un altro progetto e non volevo lasciarmi tentare leggendo la sceneggiatura. Ma il mio agente ha insistito, dicendomi: «Sei pazza? È un ruolo straordinario!». E così mi ha convinta a leggere il copione che ho subito adorato!

CHE COSA L’HA INTERESSATA INIZIALMENTE?

All’inizio sono rimasta sedotta dalla dimensione del progetto: un grande film popolare con un aspetto romantico. E poi mi è piaciuto molto il tono, perché c’è una buona dose di coraggio e audacia nell’umorismo, nel modo di rivolgersi agli adolescenti, nella maniera in cui viene dipinta questa famiglia di sordi. E ho anche amato molto l’idea di andare alla scoperta di un universo nuovo e di capire il suo funzionamento, i suoi codici. Dunque, la possibilità dell’incontro con la cultura dei sordi ha stuzzicato la mia curiosità e mi ha fatto venire la voglia di immergermi nel progetto.

ERA UNA SFIDA INCREDIBILE INCARNARE UNA DONNA SORDA…

È stato molto difficile! Forse uno dei complimenti più belli che ho ricevuto è stato quello di Alexeï, il nostro insegnante della lingua dei segni, quando mi ha detto «i sordi ti adoreranno». Sentivo una responsabilità enorme nei confronti dei sordi e degli audiolesi ed ero animata da un’autentica volontà di non tradirli. Tutto questo ha creato una grande tensione in me. Non volevo che dicessero che avevo recitato imitandoli e scimmiottandoli, ma che sentissero la mia sincerità.

COME DESCRIVEREBBE IL SUO PERSONAGGIO?

È innanzitutto una madre, ma poiché è sorda, contrariamente alla figlia, Paula le permette di essere in relazione con il mondo. È anche la madre di una adolescente: deve dunque affrontare, come tutte le mamme del mondo, le velleità indipendentistiche di sua figlia. E questo è un passo difficile per lei poiché preferirebbe tenere la figlia accanto a sé, in primo luogo per istinto materno, ma anche perché la ragazza rappresenta per lei un sostegno nella vita quotidiana e sentire che le sta sfuggendole la rende di fatto vulnerabile.

LEI INTERPRETA UN’AGRICOLTRICE PIUTTOSTO CIVETTUOLA CHE VIVE IN CAMPAGNA…

Mi piace molto il fatto che nella vita ci capita di incontrare delle persone che non immagineremmo neanche in un film! Il mio personaggio incarna il contrappunto di quanto ci si potrebbe aspettare. Del resto, nella sceneggiatura era descritta come una ex Miss e questo potrebbe spiegare la sua civetteria. Ma in fin dei conti non credo che sia essenziale. Se a priori possiamo pensare che la sua presenza si faccia notare in un contesto rurale, quando la scopriamo nella sua fattoria ci appare al contrario normale e naturale. Chi l’ha detto che un mestiere deve dettare il modo di vestire di chi lo pratica? Eric Lartigau è molto libero: non teme che il mio personaggio stoni nel suo contesto. Anzi, ha scelto espressamente di renderlo variopinto per suscitare comicità ed emozioni.

La questione di sapere se è veramente un’agricoltrice non si pone.

L’HA DIVERTITA O INTRIGATA LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE, IN PARTICOLARE IN MATERIA DI SESSO, CHE HA QUESTA MADRE?

Sì e dipende in parte dalla sessualità piuttosto sbrigliata della famiglia Bélier! Il tono molto libero delle loro conversazioni, che vertano sul sesso o su tutti gli altri temi, deriva anche dalla natura intrinseca della cultura dei non udenti. Ho adorato questo aspetto così diretto nell’espressione dei sordi, che mi assomiglia visto che non sono sempre diplomatica! Con loro, ho avuto la sensazione di essere a casa mia e mi sono sentita molto a mio agio. Nel momento in cui non c’è alcuna malevolenza, si possono dire le cose come vengono e trovo questo modo molto autentico e molto spontaneo. La parola ne risulta liberata. Per esempio, si può dire a qualcuno «hai una faccia spaventosa oggi» senza urtare la sua suscettibilità né dare la sensazione di giudicarlo.

COME CONSIDERA PAULA ?

Quando ho visto il film, ho trovato incredibile la capacità di Louane di personificare l’essenza dell’adolescenza: non mette in atto alcuna dinamica seduttiva, non si atteggia con vezzi e moine. Coniuga al tempo stesso una neutralità di espressione con parole molto espressive e colorite e a volte anche molto violente. E l’adolescenza è un po’ anche questo: la volontà di coltivare un giardino segreto, la voglia di avvicinarsi ai genitori, un lato infantile e una propulsione verso l’età adulta… E trovo che il film tratteggi questo quadro in modo molto giusto. Di conseguenza, ci troviamo allo stesso livello di un adolescente. Paula non è un’oca giuliva: incarna la sincerità e l’asprezza.

CHE COSA CI PUÒ DIRE DELLA COPPIA CHE FORMA CON IL PERSONAGGIO INTERPRETATO DA FRANÇOIS DAMIENS?

Quello che mi è piaciuto di questa coppia è il suo essere simbiotica, l’incapacità dei due coniugi di funzionare in assenza dell’altro. Quest’uomo e questa donna si adorano, hanno una sessualità appagante e un enorme scambio di tenerezza e di solidarietà. Li sentiamo molto uniti, malgrado lui sia più chiuso, meno espansivo e tuttavia è lui che «autorizza» la figlia ad andarsene di casa. Mi piace molto il meccanismo di funzionamento di questa coppia, tutt’altro che convenzionale.

COME SI È SVOLTA LA SUA COLLABORAZIONE CON FRANÇOIS DAMIENS?

Con François è andato tutto bene, ma tra noi c’è stato un «terzo incomodo» che ha un po’ complicato la situazione, ovvero la lingua dei segni. È diverso recitare una scena nella lingua dei segni rispetto a quando si recitano battute di dialogo! Questo fatto ha aggiunto tra noi un «terzo personaggio» che ci ha portato ad affrontare le riprese con una certa apprensione e un’intensità tutta particolare. È tutt’altro che facile interpretare un ruolo comico con l’aggravante della tensione della lingua dei segni: non sei disinvolto come di consueto e devi restare sempre estremamente concentrato. È sufficiente un minimo scarto e il segno può risultare incomprensibile o modificare il senso. È stata un’impresa piuttosto ardua.

HA AVUTO UN INSEGNANTE MOLDAVO CHE L’HA AIUTATA AD APPRENDERE LA LINGUA DEI SEGNI…

François ha lavorato con Fabienne, un’insegnante belga che gli ha insegnato la lingua dei segni francese. Io dal canto mio ho lavorato con Alexeï, un professore di origine moldava. Devo dire che sono rimasta piuttosto colpita da Alexeï e dalla sua straordinaria capacità di adattamento. La lingua dei segni è diversa da un paese all’altro, non ha la stessa grammatica e neppure lo stesso modo di enunciare i tempi e lui, nel giro di cinque anni, ha imparato la lingua dei segni francese ed è diventato professore di quella medesima lingua. L’incredibile curiosità che lui prova per il mondo degli udenti l’ha trasmessa a me per l’universo dei sordi.

IL PROCESSO DI APPRENDIMENTO DEVE ESSERE STATO DIFFICILE…

Sì, difficile, ma anche fantastico! Imparare una nuova lingua in sei mesi è un’esperienza straordinaria. Quando non si dispone della voce per farsi capire ed esprimersi, si utilizza la propria espressività e il proprio corpo. Nel loro universo espressivo, i sordi e gli audiolesi sviluppano determinate capacità che gli udenti non possiedono, come per esempio una grande mobilità delle mani e dei polsi. Dunque ho dovuto imparare dei gesti molto rapidi e molto precisi per concatenare i segni. È stato difficile, ma incredibilmente eccitante. Da allora ho perso molto di quello che avevo imparato.

CHE COSA PORTA LA LINGUA DEI SEGNI NELLA CARATTERIZZAZIONE DEI PERSONAGGI?

Quello che trovo divertente della lingua dei segni è il fatto che ci rivela qualcosa di noi che ci sfugge. Il personaggio interpretato da François presenta un lato un po’ zotico, impacciato, che è molto toccante. Mentre il mio, al contrario, è molto scattante, ha un temperamento quasi isterico, nervoso e abbastanza esaltato e penso che in fondo questo corrisponda a una parte della loro intimità di coppia. Privi di voce e di parola, scopriamo altre cose di noi stessi, non importa se belle o meno. Nel caso di François, è una timidezza profonda con un sentimento di disagio che affiora. Questa sincerità così spiccata e totale, resa possibile dalla lingua dei segni, permette a questa coppia di funzionare a meraviglia.

MI PARLI DI COME HA DIRETTO GLI ATTORI ERIC LARTIGAU.

Quello che adoro in lui è che non ha paura di avventurarsi più lontano. Mentre spesso i registi sono restii alle iniziative di noi attori, lui mantiene un’apertura nei confronti delle proposte che possiamo fargli, a condizione che lo facciano ridere. Non opera alcuna censura. È evidente che ha fiducia in noi e che accoglie i nostri suggerimenti quando sono pertinenti. Nella troupe considera tutti allo stesso livello: non esiste una gerarchia tra i tecnici, né tra gli attori. Fa partecipare tutti a un’opera collettiva di cui lui è il direttore d’orchestra. Per riuscirci, bisogna aver fiducia nel suo soggetto e nei suoi collaboratori. Malgrado la complessità di un set che mescola due mondi e due lingue differenti, è rimasto allegro, rilassato e gradevole durante tutte le riprese.

È UN’AUTENTICA SFIDA REALIZZARE UN FILM NELLA LINGUA DEI SEGNI…

È vero, ma il film funziona benissimo. Ed è merito di Eric Lartigau, che ha saputo trascinarci in questo universo sconosciuto e farcelo scoprire e apprezzare. Il film deve molto alla qualità dello sguardo di Eric Lartigau : senza affettazione, senza smancerie, estremamente rispettoso dell’altro nella sua diversità.

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