Foxcatcher, la recensione

Foxcatcher – Una storia americana trailerCi sono cose dello sport che non capirò mai. La prima potrebbe essere semplicemente come farlo con costanza visto che sono anni, diciamo pure un decennio, che non mi avvicino a qualcosa che sia minimamente sportivo per più di un paio di mesi di seguito. La seconda, tutta la foga che si crea attorno a questo mondo, vedi tifosi rabbiosi, ultras inferociti e con gli ormoni impazziti per cui il tifo conta più della loro stessa vita. Ma se ad alcune cose posso passar sopra, c’è uno sport che mai, e dico mai, capirò: la lotta. Che sia la boxe, che siano le tecniche orientali o il wrestling, io la bellezza nel vedere due che se le danno di santa ragione, di uno che sceglie per vocazione e per talento di dare pugni, morsi, calci e quant’altro ad un altro e di prenderli di rimando, non la capirò mai. E potete venirmi a dire che è un’arte, che visti meglio i movimenti armoniosi ed equilibrati fanno la differenza, io vedrò sempre e solo colpi che mi faranno chiudere gli occhi, sangue che mi farà svenire.

Immaginate quindi con che umore mi sono avvicinata a Foxcatcher, film di Bennett Miller sul mondo della lotta libera, sul magnate John Du Pont che fondò una sua squadra di lottatori che portò anche alle Olimpiadi, quelle a Seul nel 1988.
Un film simile non mi avrebbe mai interessato, e mai sarebbe rientrato nei miei interessi anche per il cast che lo compone: un Steve Carell dal naso posticcio, un Channig Tatum a cui non perdonerò quella porcata di Magic Mike (in arrivo il sequel, XXL, tutti pronti, vero?) e il buon Mark Ruffalo capitato del mezzo.
Aggiungeteci l’ambientazione anni ’80 con tutti i suoi eccessi con tutto il suo cattivo gusto e sì, Foxcatcher lo avrei lasciato senza troppi pensieri a qualcun altro.
Invece l’Academy ha deciso di metterci del suo, candidando per la prima volta Carell come attore protagonista, rubando il posto a un Jake Gyllenhaal (Nightcrawler) molto più degno o anche solo a un David Oyelowo (Selma) decisamente più carismatico.
Pure Mark Ruffalo si è beccato una nominations, e pure la regia, la sceneggiatura e il trucco.
E allora, anche solo per dovere di cronaca, Foxcatcher è passato per i miei schermi, e come se non fossero già bastati i 148 minuti di Vizio di Forma, in questi 134 la noia ha regnato nuovamente sovrana.

La noia unita al fastidio, per l’ottusità e la stupidità scimmiesca del ruolo di Tatum, nei panni del lottatore Mark Schultz che con la sua aria scimmiesca si cala perfettamente nella parte, un campione vissuto nell’ombra del fratello che trova un magnate pronto a dargli vitto, alloggio e comfort nella sua residenza da milionario, formandolo per le prossime gare e formando attorno a lui una squadra di campioni. Fastidio poi per il viscidume che Du Pont trasuda, per il suo ego smisurato che si fa palpabile nel documentario che produce sulla sua persona e la sua squadra, per l’uso smodato di droghe, per il rapporto conflittuale con una madre che come me non vede nulla di nobile nella lotta, bollando quest’hobby del figlio come una perdita di denaro, prestigio e di tempo. Il rapporto tra allievo e maestro, anche se mai del tutto definito, avanza tra eccessi e scontri, dimostrando tutta la poca intelligenza di entrambi. Nemmeno l’arrivo del fratello prodigo, richiamato sia dalle comodità che gli offrono che dai sentimenti, aggiusta solo un po’ le cose, o perlomeno aggiusta un fratello preso dal giro di alcool, cibo e droghe, rimettendolo in riga, facendogli aprire gli occhi verso il suo mito. La sensazione che non tutto stia andando per il verso giusto la si sente fin dall’inizio, in quell’angolo di paradiso sono molte le cose a non tornare, e mentre l’ego si fa paranoia, la tragedia è già alle porte. Unico colpo di scena, unico vero tuffo al cuore, quegli spari non aiutano un film piuttosto monocorde, che nemmeno nei momenti di lotta ha saputo esaltare. I toni della fotografia che virano spesso al grigio non aiutano a far entrare del ritmo o anche solo del brio in Foxcatcher, che vorrebbe reggersi tutto nella trasformazione fisica e della carriera dei due protagonisti, che ce li inquadra ravvicinati, come a mostrare che sì, Carrel è davvero lui e che sì, Tatum ha qualcos’altro oltre i muscoli. Quando però nemmeno questo si vede, rimanendo appiattiti sotto la voce fastidiosamente piatta di Carell, ridendo delle espressioni neandertaliane di Tatum, allora Foxcatcher si fa dimenticare in fretta, mentre restano inspiegate quelle nominations regalate dall’Academy.

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