I misteri del giardino di Compton House (1982)

I misteri del giardino di Compton HousePeter Greenaway è un cineasta molto atipico, le cui opere fanno sicuramente parte di quello che viene definito il ‘cinema alto’, o cinema d’autore, che non possono essere visionate da tutti o per passarsi una serata in spensieratezza e relax. E’ un cinema complesso, irto di simbologie e con un retrogusto macabro (quasi tutta la sua produzione, per certi versi, fa parte del filone grottesco) che mette sempre un certo disagio addosso, quasi che quel simpaticone volesse mettere a nudo la parte malefica più nascosta di noi per rinfacciarcela. Sicuramente è un regista importante, che alla settima arte ha saputo dare molto, ma pur rispettando in maniera ossequiosa il suo lavoro non me la sono mai sentita di metterlo fra i miei registi preferiti. E non solo perché alle volte mi sento inadeguato dinanzi alla complessità del suo cinema, ma perché per certi versi lo sento così magniloquente e studiato che non riesce mai ad attecchirmi in una maniera particolare – e sì, un paio di titoli ammetto che proprio non li ho capiti. Per una volta però devo ringraziare la scuola se sono arrivato a scoprire un autore simile, perché avevo sentito due professori (quelli di cinema e di storia dell’arte) che ne parlavano poiché, dati i suoi esordi e studi come pittore, c’era un certo collegamento fra le loro materie. Avevo quindi chiesto cosa potessi vedere di suo e mi consigliarono questo The draughtsman’s contract, traumatico inizio con un autore che ha fatto dei traumi visivi/teorici il suo successo della propria poetica.

Mrs Herbert, moglie di un ricco proprietario terriero, assume l’arrogante paesaggista mr Neville per eseguire dodici disegni della propria dimora di Compton House, da regalare al marito quando sarà di ritorno dal suo viaggio d’affari. Il contratto però prevedere che l’artista non potrà usufruire solo delle comodità della casa, ma anche dei favori sessuali di Mrs Herbert, ai quali poi si unirà pure la di lei figlia. Ma strani fatti iniziano ad accadere in quella casa e sembrano suggerire che qualcosa di sinistro sia successo a mr Herbert…

Non ci si pensa spesso, ma cinema e pittura sono in qualche modo collegati. Così come il fumetto, per certi versi. Sono tutte arti che si basano sull’immagine, anche se per motivi diversi. La pittura pone le attenzioni dello spettatore su un momento, un singolo attimo che però è rappresentativo di tutta la vicenda. Per dire, quando vediamo L’ultima cena di Leonardo da Vinci, senza fare analogie strane con Il codice Da Vinci, quella scena ci porta alla memoria tutto ciò che successe a quella tavolata, così come vedere il Lamento su Cristo morto di andrea Mantegna ci mostra il cadavere di Gesù dopo la crocifissione, divenendo la simbologia di tutto il Calvario attraverso il momento più statico di tutto l’episodio evangelico. Il cinema usa sempre l’immagine ma opera però su sentieri diversi, perché non si usano immagini ferme (e qui si aprirebbe una simpatica parentesi sul fumetto e su come comunichi attraverso lo spazio delle vignette) ma sequenze in movimento. Eppure non è così dissimile dalla pittura perché, nonostante il montaggio, i piani sequenza e tutto il resto, a livello compositivo tutto deriva da lì. Cinema e pittura possono venirsi incontro, come ha testimoniato più volte Barry Lyndon, e in questo caso la cosa avviene in maniera totalitaria. Perché l’incontro non viene eseguito solo a livello narrativo, con questo pittore che diventa occhio di ciò che vede, come un regista, ma anche per il fatto che Peter Greenaway pittore lo è stato sul serio e cerca di far interagire quei due mondi in maniera univoca, pur mantenendone ferme l’identità – è stato a lui ad affermare che ogni regista, prima di essere definito tale, dovrebbe frequentare due anni di accademia d’arte. E dando le basi per quello che sarà il suo stile futuro, fatto di situazioni grottesche ai limiti dell’assurdo e personaggi che non sai mai bene come collocare, perché solo alla fine vi sarà il punto focale di tutta la faccenda. Una faccenda che trova i suoi fondamenti proprio sulla pittura e sui concetti che essa emana, perché c’è molta diversità fra il guardare e l’osservare. Come dice un personaggio secondario, Mrs Tallman, un uomo intelligente può essere solo un mediocre pittore, perché ritrarre impone una certa cecità. Ed è anche la definizione perfetta per il cinema di Greenaway, un film che non puoi guardare e basta, ma che devi osservare attentamente, affinché tutto possa esserti chiaro. E qui sta il bello, perché nulla si può comprendere con totalità, perché le cose davvero belle lasciano sempre qualcosa di nuovo che ti può sfuggire a una prima occhiata, per quanto attenta. Lungi da me però il definirlo un capolavoro, perché non lo è. Rimane sempre un’opera prima – ok, seconda, ma l’esordio del buon Peter era un qualcosa di difficilmente collocabile – e in quanto tale ha tutte le incertezze degli esordi, a cominciare dal voler immettere dentro di sé dei concetti enormi e difficilmente gestibili. Quello del vedere (a tal proposito, bellissima trovata quello dell’uomo nudo che si aggira per il parco e del quale quasi nessuno sembra accorgersi) si ripercuote non solo sul discorso della pittura, ma va a intaccare persino il tessuto sociale dei personaggi, che mostrano il ritratto spietato e sprezzante di una classe sociale, quella a cui appartiene Mr Neville, che nonostante sia convinta della propria autonomia alla fine non si ritroverà ad essere null’altro che uno strumento nelle mani dei potenti. La colpa maggiore del protagonista non è altro che quello di aver avuto una vista abbastanza lungimirante per prevenire tutto ma, questo mi piace pensarlo, alla fine manco ai nobili rimarrà molto altro, perché non c’è peggior cieco di colui che si illude di poter vedere tutto. D’altronde sulla tela possiamo ritrarre unicamente quello che vediamo e non ciò che sentiamo di sapere nel nostro profondo. Quella è la nostra zona d’ombra con la quale dovremmo fare i conti prima o poi, quando gli occhi non serviranno a nulla.

Sicuramente, e non solo perché si tratta del suo esordio narrativo, un’ottima opera con cui iniziare la scoperta di uno dei registi più particolari della nostra epoca.

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