Quattro chiacchiere con il cantautore Gianni Carboni

Partiamo dalle tue origini artistiche, quando hai iniziato a interessarti alla musica?
Avete presente lo stereotipo del classico predestinato in musica? Figlio, nipote, pronipote di musicisti, che a tre anni riceve la sua prima chitarra, a sei inizia a suonare il pianoforte, a dieci inizia a comporre e a quindici è già il divo della zona? Ecco, io sono l’esatto contrario. Non si ricordano musicisti nel mio albero genealogico. Inizio ad approcciarmi alla musica, e più precisamente alla chitarra, a furia di stancarmi di vedere i miei amichetti dell’epoca suonare, avevo 12/13 anni. Erano tutti molto bravi, io fino ad allora avevo avuto altri interessi ma venivo attratto da quel mondo tramite loro. Mentre suonavano li guardavo e ne studiavo i movimenti, poi a casa facevo esercizio mentale perché non avevo alcuno strumento, avrei dovuto ancora aspettare per averlo. Simulavo i movimenti delle dita sul braccio e associavo mentalmente un suono alla posizione, tutto in modo astratto. Da lì ho scoperto che la mia mente andava più veloce delle mie mani, e che avevo tanta musica dentro senza saperlo. Da allora non ci siamo più lasciati.

Cos’è la musica per te?
Può sembrare brutto da dire, ma per me è una malattia, l’unica malattia positiva che esista nel mondo. Una specie di ossessione morbosa che non riesce a farmi dormire, che mi distrae dalla realtà quotidiana purtroppo spesso non fatta solo di musica. Capita spesso di essere a casa di amici o al pranzo di famiglia, tutti stanno parlando e magari lo faccio anch’io ogni tanto, ma in realtà la mia mente è totalmente estraniata dal discorso e sta pensando incostantemente, che ne so, all’ultimo arrangiamento sul quale sto lavorando, alla frase che manca per finire il testo di un pezzo oppure al suono da scegliere per il bridge del brano che sto producendo. Sembra quasi che non esista altro, la musica mi assorbe totalmente. Solo chi ha questo fuoco dentro può capirmi, per gli altri sarò semplicemente uno con la testa fra le nuvole. Può essere anche un boomerang a volte, soprattutto nel rapporto con gli altri, ma a me sta bene così e accetto il rischio.

Parlaci di “In punta d’ardire”, come nasce l’album?

Nasce dalla consapevolezza di aver perso troppo tempo aspettando gli altri. Dopo troppe esperienze di band dove non si riusciva mai a trovare il giusto equilibrio, ho deciso di dire basta e di lasciare la prima traccia indelebile di me nel mondo. Fino ad allora avevo fatto diverse demo, qualche EP, sempre in contesti di band, ma mai un lavoro che possa definirsi tale dall’inizio alla fine. Allora ho deciso di rinchiudermi giorno e notte in studio per mesi da solo, e ho prodotto il mio primo album da solista, dall’inizio alla fine. Prendendo qualche mio vecchio brano “storico” e altri di nuova scrittura, fino ad arrivare a 12 inediti di cui 5 in doppia versione inglese/italiano per un totale di 17 tracce. Un lavoro di cui vado enormemente fiero, dove ho cercato di mettere tutta la mia verità dentro. Quando lo riascolto penso sempre: nel bene e nel male, quello sono davvero io.

Conta di più il testo o la musica in una canzone?
“La virtù sta sempre nel mezzo”, dicevano gli antichi. Ecco, per me è proprio così. Sempre, compreso in questa risposta. Non mi piacciono le canzoni che hanno dei testi bellissimi con musiche totalmente anonime, banali, strasentite e risentite, composte con voluta leggerezza, tanto vale leggere una poesia. Così come non mi piacciono delle bellissime musiche accompagnate da testi ridicoli, quasi messi a caso giusto per “riempire”, tanto vale ascoltare un pezzo strumentale. Bisogna trovare il giusto equilibrio fra le due componenti, con la consapevolezza che a colpire di più il pubblico rimane comunque la musica, altrimenti non si spiegherebbero le tantissime persone innamorate di canzoni in inglese di cui non si conosce il significato. Le melodie e la scelta dei suoni sono troppo importanti. Trovare appunto questo giusto equilibrio fra tutto ciò è molto difficile. Ovviamente l’obiettivo è quello di alzare il livello di entrambe le cose, senza abbandonare totalmente un aspetto a discapito dell’altro.

Raggiungere un proprio stile e identità, quanto è importante?
E’ importantissimo quanto complicato in questa fase storica della musica. Quando mi è capitato di parlare con qualche veterano, mi racconta sempre degli anni d’oro, dove si creavano delle vere e proprie fucine della musica nelle città, dove quelli che poi sarebbe diventati dei grandi artisti stavano insieme mattina e sera per comporre, ispirarsi a vicenda, trovare suggestioni e trasformarle in note. Mi immagino alcune scene in cui ad esempio si potevano incontrare, che ne so, Celentano, Dalla, Morandi, Ron, oppure Vasco Rossi e Gaetano Curreli con i loro staff e tutti gli altri di quel periodo a parlare di musica, con stimoli creativi irriproducibili oggi. Era una continua ispirazione. Alla nostra generazione manca proprio questo. Siamo bombardati fin da piccoli dalla cultura del pianobar e del karaoke. Ci si concentra sulla nota più alta o sull’urlo più ben riuscito, dimenticandosi completamente della cosa più importante: avere qualcosa da dire. Crescendo in questo contesto è facilissimo finire inconsciamente per imitare qualche altro artista famoso che magari piace particolarmente, uccidendo la propria autenticità, che sono convinto ognuno di noi abbia. C’è qualche lodevole tentativo di tornare a quegli ambienti, ma purtroppo i grandi mass media non aiutano in questo, salvo eccezioni. Io sono riuscito ad allontanarmi da questo mondo con molta fatica e non ancora del tutto, fatica che continuo ad avere tutt’oggi. Negli anni ho fatto tanti passi avanti in questo, ma non è ancora finita. Cerco ancora oggi di isolarmi da questo “casino” per scavare dentro di me, a volte ci riesco bene, altre meno, ma non smetterò mai di cercare me stesso.

E’ difficile “campare” di musica?
Dipende dal concetto che uno ha di musica. Campare genericamente di musica è difficile ma non impossibile, ma campare della propria musica, invece, è realisticamente molto, molto difficile. Devo necessariamente riagganciarmi alla risposta precedente. Io ho rispetto per tutte le forme in cui la musica può esprimersi, però bisogna distinguerle in modo chiaro, altrimenti si crea un miscuglio dannoso per tutti. Se vuoi fare animazione, far semplicemente divertire la gente, fare festa senza se e senza ma, puoi campare di musica. Lo fanno in diversi e, ripeto, li rispetto. Se invece vuoi comunicare te stesso in musica, allora è davvero tostissima. Salvo miracolose quanto a volte poco chiare comparsate televisive o sanremesi, che riescono a darti la visibilità che, se unita all’apprezzamento del pubblico, può fare la differenza cambiandoti la vita, si è spesso condannati all’anonimato. Soprattutto se non accompagnati da uno staff che aiuti veramente e che non utilizzi gli artisti come un qualcosa dalla quale ottenere qualche soldo sfruttando i loro sogni per poi passare al prossimo. Chi ha la fortuna di trovarli, ben venga ed in quel caso c’è qualche chance in più per potersi autosostenere dalla musica, pur in un contesto di nicchia. Io per ora non ho avuto questa fortuna, oppure non sono stato bravo a meritarmela. Quando dico che faccio tutto da solo, intendo solo per davvero. Ho provato a cercare qualcuno con cui collaborare ma, a parte tanti preventivi di spesa, non ho trovato nient’altro. Quando giro per i locali a propormi e dico che faccio brani miei, mi guardano storto. Quei pochi locali che danno questi spazi spesso si rivolgono solo ad agenzie, ignorando l’artista autoprodotto al 100% per mancanza di fiducia e di propensione ad un minimo di rischio. Insomma, è un gran casino. Penso che alla fine sia la qualità del pubblico a fare la vera differenza: se ci sarà voglia e curiosità di ascoltare del nuovo, allora le cose cambieranno. Se invece si continuerà a cercare “sicurezza” in ciò che già conosciamo, non ci sarà futuro per la nuova musica. Io penso che prima o poi questa curiosità tornerà. In parte, a piccolissimi passi, sta già un po’ tornando. Nel frattempo bisogna continuare, testardi più che mai, a suonare, suonare, suonare la propria musica, sempre, comunque e dovunque. Chi resisterà, al momento giusto, avrà vinto.

Progetti futuri?

Proprio in queste settimane sto ultimando la scrittura del mio secondo album. Appena terminerà inizierò la fase della produzione sulla falsa riga di quanto già avvenuto per il primo ma con la differenza, importantissima, che nel prossimo album inserirò la giusta dose di elettronica negli arrangiamenti, fatto per cui mi sto attrezzando e sto studiando tantissimo, in modo da arrivare preparato a questa nuova sfida molto affascinante per me, quella di miscelare le mie chitarre distorte con i suoni moderni. Spero di poterlo lanciare entro la fine di quest’anno o l’inizio del prossimo. Avrei in testa già il titolo, ma spero di lasciarvi con un po’ di curiosità…

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