La deforestazione è sempre più mossa dal profitto, non più dalla povertà

Il principale motore della deforestazione non è più l’agricoltura di sussistenza. La distruzione delle foreste non è più causata dai contadini poveri che dissodano campi per per far sopravvivere la propria famiglia, ma è sempre più provocata dall’espansione dell’agricoltura industriale. I massicci programmi di dissodamento di nuove terre per la piccola agricoltura segnano oramai il passo: la globalizzazione spinge milioni di contadini verso le grandi città, mentre le campagne – e le foreste – sono sempre più gestite da grandi gruppi industriali organizzati su vasta scala. I governi, per non perdere preziose opportunità di sviluppo, si affrettano a finanziare grandi progetti infrastrutturali come strade, dighe e centrali elettriche, che aprono nuove aree di foreste incontaminate, come ben illustrato da diversi studi del CIFOR.

Oggi la gran parte delle foreste viene abbattuta su spinta delle grandi multinazionali, che controllano quote sempre più ampie del mercato. Quasi la metà di tutta la produzione mondiale, secondo uno studio del WWF, è gestita da appena un centinaio di imprese.

“E’ ormai chiaro che il ruolo del commercio internazionale è un fattore sempre più trainante della deforestazione, più di quanto non lo fosse alcuni decenni fa. Anche perché ultimamente il commercio nazionale e internazionale è diventato un fattore più importante nella vita quotidiana, anche in quella dei piccoli agricoltori poveri che operano sulla frontiera agricola – spiega Sven Wunder, sul blog del CIFOR – La deforestazione è sempre più alimentata dal profitto piuttosto che dalla povertà, sempre più dai mercati regionali o internazionali, piuttosto che da esigenze locali”.

Secondo alcuni, questo sviluppo offre una maggiori opportunità di combattere la deforestazione: i grandi gruppi, come McDonalds, Mattel Inc, Nestlé, Monsanto ecc., sono più esposti alle campagne ambientaliste, e nel recente passato hanno dovuto modificare le proprie pratiche per proteggere il proprio marchio.

Al tempo stesso però questi stessi gruppi hanno fortemente sviluppato la comunicazione ambientale, spesso praticando massicciamente il “green-washing” – ossia presentando qualità ambientali dei propri prodotti o della stessa azienda, che non corrispondo alla realtà dei fatti.

Secondo altri lo scenario è molto meno roseo. I grandi gruppi industriali dispongono di grandi risorse tecnologiche, in grado di accelerare il processo di deforestazione. Inoltre possono facilmente influenzare i governi nazionali –  talvolta con un bilancio inferiore al loro – corrompendo in funzionari o esercitando pressioni politiche, per ottenere vaste connessioni, per evitare ammende e perfino per legalizzare le pratiche illegali.

Il relativo declino dei mercati occidentali rischia ora di rendere più difficile per i gruppi di pressione, compito di influenzare le grandi multinazionali. I mercati emergenti hanno infatti forme diverse di sensibilità ambientale (per esempio, il mercato si concentra nelle città, dove è più forte la sensibilità verso l’inquinamento urbano che non verso la deforestazione in remote aree rurali). Le multinazionali hanno saputo rapidamente comprendere e sfruttare a loro vantaggio, ed è per questo che per esempio le associazioni ambientaliste faticano ora a influenzare le pratiche del colosso cartario Asia Pulp & Paper (APP), per il quale i mercati occidentali sono relativamente marginali, mentre gli acquirenti in Cina, Sud-est asiatico e Medio oriente non sono troppo sensibili alla tematica dalla deforestazione in Indonesia.

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