Anomalisa

È vero, Charlie Kaufman gioca in casa con me, soprattutto se si mette a costruire un mondo tutto suo attraverso la tecnica della stop motion, una tecnica che io personalmente adoro, della quale sono innamorato da sempre, grazie a Tim Burton ed Henry Selick, ma anche ai vecchi film che utilizzavano questa ineguagliabile arte prima dell’avvento della CGI per fare interagire il finto col vero. Una cosa che fa anche Kaufman, nonostante non ci siano attori in carne ed ossa, poiché lui inserisce l’elemento del reale nei lineamenti dei suoi pupazzi ma, soprattutto, nella sua sceneggiatura. Scrittore prima che regista, Kaufman riesce a sfruttare tutte le sue doti per fare in modo di costruire una solida storia di depressione, solitudine, incertezza e isolamento, che sfocia in un laghetto di speranza flebile e vagamente palpabile.
Così il narratore ci accompagna all’interno del mondo distorto di Michael Stone, eccellenza nel campo del servizio clienti, autore di un libro che ha rivoluzionato il modo di interagire degli operatori telefonici, ma anche marito insoddisfatto ed annoiato, che non vive il suo successo come una realizzazione personale ma che sente il peso del mondo che lo circonda come un ridondante eco di se stesso, dove niente suona come nuovo e tutto risulta ripetitivo, vuoto e per nulla interessante, finché una sera una voce, la prima voce diversa dalle altre, cattura la sua attenzione.
Quella voce appartiene a Lisa, una ragazza con tanti problemi quanti ne ha Michael, con la quale riesce ad instaurare un rapporto sempre più intimo che però… No, credo di avervi già svelato abbastanza di quello che succede tra i malinconici ed affascinanti fotogrammi presentati in questo film, tra i quali lo spettatore riesce a perdersi in maniera del tutto naturale, senza percepire alcuna forzatura narrativa, rimanendo comunque ancorato alla propria, di realtà, poiché tutto questo non è altro che finzione.
È una sensazione strana, quella che si porta a casa dopo aver assistito ai 90 minuti di Anomalisa: sembra quasi di essersi incarnati in qualcun altro e di aver vissuto la sua vita per quel poco di tempo che il regista ci concede, eppure si ha la certezza, durante questo processo, che quella realtà è fasulla, straniante, fittizia, il che permette ancor meglio al pubblico di immedesimarsi nel protagonista, pur rimanendone consci distaccati spettatori.
Il mondo rappresentato sullo schermo e lo stile scelto per raccontarlo, quindi, enfatizzano la confusione e il senso di inadeguatezza di Michael Stone, facendo in modo che lo spettatore ne prenda atto, lo comprenda, lo condivida, provando lo stesso speranzoso sollievo e il medesimo stupore all’udire la voce di Lisa per la prima volta, senza però permettergli di partecipare appieno a quelle sensazioni, poiché la stop motion suggerisce costantemente che quel mondo, così vero, reale, umano, in realtà è l’esatto opposto. E noi, inermi, non riusciamo ad entrarci completamente, anche se lo vorremmo tanto.
Il cinema, spesso paragonato ad una finestra, diventa qui una porta, che Kaufman ci permette di varcare ma ci impedisce di chiudere, lasciandoci in un limbo di incertezza e malinconica soddisfazione che non potrà mai essere pienamente appagata, ed è proprio questo che ci trascinerà verso una urgente e disperata necessità di una seconda visione, nella speranza che, col passare del tempo, quella sensazione di parziale benessere non venga fagocitata dal monotono e noioso eco che rimbalza all’interno della routine della nostra vita.
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