Spun, la recensione

SpunUna cosa che mi hanno sempre rimproverato in tanti, durante la mia adolescenza, è quella di aver voluto fare fin troppe cose, finendo per sapere un poco di tutto ma mai nulla in maniera esauriente. A fare da apogeo a questa ramanzina è stato il mio accostamento al mondo della musica, in specie quella metal, con tanto di tentativo di fondare una band che si è sciolta come in ghiacciolo a ferragosto. Eppure, nonostante la vita mi abbia insegnato fin troppo come il troppo stroppi, io proprio non ce la faccio a stare concentrato su una sola cosa. Ne è prova evidente il mio MP3, che contiene un po’ di tutto, cosa che mi ha portato a scontarmi con tante compagnie metallare che erano rimaste fissate su un certo tipo di musica e fuori da quello non uscivano – e quando ne uscivano, erano dei poveri nerd che non avevano molto altro da offrire al mondo. Eppure è proprio grazie a questa mia incontinenza mentale che mi sono imbattuto nella figura di Jonas Åkerlund, inizialmente come primo batterista della band black-viking metal dei Bathory (e qui mi prendo un attimo di pausa e faccio scendere una lacrimuccia per il compianto Quorthon) e successivamente come regista di videoclip, cosa che lo ha fatto realmente conoscere al mondo. Inizialmente ha esordito sempre nell’habitat dei metallari, dirigendo Bewitched dei Candlemass ed evolvendosi sempre più, fino a realizzare Turn the page dei Metallica, ottenendo quindi la piena gloria con cose assurde come Smack my bitch up dei Prodigy e Telephone di Lady Gaga. Poi venne il giorno in cui realizzò il primo film…

Ross è un giovane drogato. Un giorno ha modo di entrare in contatto con “il cuoco”, un leggendario fabbricante di meth, e per una serie di motivi deve fargli da autista in una strana, assurda, monotona e incredibile giornata come tante.

Vidi questo film durante una riunione d’istituto delle superiori. All’epoca ignoravo chi l’avesse diretto, l’avevo visto solo perché era pubblicizzato dalla One movie, una casa che insieme a molti film altamente trash ha portato nel mercato home video italiano anche delle piccole perle come Avalon e Fish tank, quindi decisi di vederlo. Anche perché se il trailer non mi aveva fatto capire nulla di quella che era la trama, avevo la sensazione che avrei sicuramente visto un film davvero assurdo. E assurdo lo è di certo, ma di quell’assurdità che non ti lascia scampo, che ti circonda e alla fine ti fa uscire dal tuo giro di giostra un poco scombussolato e confuso. Il che è un bene? Dipende. Per certi versi do per scontato che la questione sia positiva, perché un’opera, cinematografica o meno, deve sempre lasciarti addosso qualcosa. Che sia un qualcosa di bello o brutto è poi irrilevante, basta che lo faccia. Altrimenti succede qualcosa di peggio di aver assistito a un film brutto: succede di aver visto un film inutile. Però questa stranezza, questo disgusto deve farsi portavoce di un qualcosa, di un messaggio o di una certa linea guida, altrimenti diventa inutile proprio per i motivi opposti. Ed è un po’ quello che succede a Spun, prima fatica cinematografica di Jonas Åkerlund che però non sembra avere le idee chiarissime su cosa fare. E’ trasparente solo la sua provenienza dal mondo metal perché la pellicola è costellata da citazioni musicali, a iniziare dalla bellissima The number of the beast, celebre classico degli Iron Maiden coverizzato dagli Zwan, fino al cammeo di Rob Halford (leader dei Judas Priest) e alla scena in cui un tizio guarda alla tv il video Mother north dei Satyricon. Oltre a questo, però, cosa c’è? Uno stile di regia davvero sparafleshato, che ti fa sentire davvero drogato anche se, come me, non ti sei mai fumato una canna (alle feste ero una noia, ne sono consapevole) e delle situazioni ai limiti dell’assurdo. Ma un assurdo vuoto e che, purtroppo, non riconduce a nulla. Perché la scena in cui “il cuoco”, interpretato da un Mickey Rourke che sembra fin troppo a suo agio nella parte, va in un pornoshop e Ross se lo immagina come il presidente degli stati uniti intento a fare un discorso in onore di un culo bello sodo, è divertente, ma è inutile. Il problema non sta in una scena singola, ma dal fatto che il film è costellato di situazioni simili che, se a un primo momento divertono, alla lunga stufano e diventano persino di dubbio gusto. Forse Åkerlund voleva fare il verso al Gummo di Korine, ma ignora che nel film del particolarissimo cineasta americano non c’era solo depravazione fine a sé stessa, ma era veicolata da un messaggio e da un’analisi particolare. Qui abbiamo solo un ammontare di sequenze che non vogliono dire nulla, pezzi esagerati accompagnati dalla regia sparafleshata di cui sopra che però alla lunga diventa ridondante e non trasmette più nulla, se non un vago fastidio. E alcuni potranno dirmi che bisogna fare così se si vuole trasmettere la confusione, ma io ribadisco che la confusione la comunichi soprattutto con la chiarezza, e prendo come esempio Philip K. Dick e il suo bellissimo romanzo Un oscuro scrutare, dove mandava la testa in pappa al lettore, pur mantenendo una prosa asciutta e chiarissima – ma basterebbe pensare al Trainspotting di Boyle. Qui Åkerlund ci prova in ogni maniera a trasmettere qualcosa, ma tutto sa di già visto e, per quanto il finale sia davvero bello se preso come elemento a sé stante, non riesce a far confluire il risultato finale in un discorso omogeneo e coerente. Droga e drogati in agrodolce (sottolineo che su questi ultimi non pongo giudizio alcuno, sia chiaro), ma poi? Non basta il tema, serve anche uno studente che lo svolga.

Per quanto mi riguarda, Jonas Åkerlund col cinema poteva fermarsi qui. Poi però ha proseguito con un documentario su Madonna, il fiacco Four horsemen e il da noi inedito Small apartments.

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