
Niente moglie, niente figli, niente alternanza Iraq/America per enfatizzare il distacco e l’incomprensibilità di certe scelte, nessun cenno ai suoi problemi, ai suoi dubbi, niente di tutto questo. Clint Eastwood, uomo prima e americano poi, mette in mostra l’essere umano Chris Kyle e lo uccide molto prima, con quel primo piano datato 11 settembre 2001, nel momento in cui il terrorismo invade la mente degli americani e i loro confini, mutando completamente l’immaginario collettivo di una nazione. È lì che l’uomo muore e nasce il cecchino, la macchina da guerra che prima non c’era e che ora è pronta a sparare su uomini, donne e bambini purché rappresentino una minaccia per i suoi compagni, i suoi fratelli. Timoroso, dubbioso e teso, ma anche letale, sicuro e fermo, pronto a svolgere il suo compito senza esitare un secondo, mentre sua moglie resta a casa a preoccuparsi se riuscirà mai a riavere indietro l’uomo di cui si è innamorata. Questa è la guerra, cari spettatori, sembra suggerirci Clint Eastwood, questo è ciò che causa nelle persone: si perdono, cambiano a tal punto da arrivare a pensare che un cane addomesticato è appena diventato un nemico da sconfiggere. E non c’è via d’uscita, cari spettatori, perché dalla guerra non si sfugge: civili, militari, uomini, donne, bambini, la guerra non risparmia nessuno, nemmeno quando si è tornati in patria. C’è un solo modo per far sì che essa cessi di tormentarci, e Clint non lo mostra, ma lo scrive: lo spara in mezzo ad uno schermo nero come un proiettile, a metà tra le immagini di finzione e quelle di repertorio, quasi a volerci suggerire che la linea tra le due questa volta è molto sottile, che fuori da quella piccola sala cinematografica sicura c’è una guerra che non dobbiamo ignorare, nonostante le nostre insignificanti e stupide vite cerchino di distrarci da tutto l’orrore del mondo.
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