Bellocchio racconta il suo film: Il Traditore

“Il traditore” racconta di un uomo, Tommaso Buscetta, che tradisce “Cosa nostra” convinto che non sia lui a tradirla, ma i Corleonesi, i rivali del suo schieramento, che sterminando tutti gli avversari si sono impadroniti dell’organizzazione criminale.
Perciò non si sentiva né uno spione, né un traditore, né un infame, proprio perché lui, Buscetta, è rimasto fedele a una società mafiosa dai nobili principi che si batteva in difesa dei deboli, dei poveri e che ora non c’è più.

Lo dice, lo ha scritto tante volte: lui ha tradito la sua famiglia mafiosa, perché questa ha tradito lui. Questa è la sua tesi insomma, per cui non si considera un traditore.

La sfida del film è proprio questa: rendere un personaggio duplice, forse triplice, senza altarini né condanne. Si tratta di fare un film – una volta si sarebbe detto un film aperto, ora è un aggettivo che non si usa più – che, come il proprio protagonista, sia complesso e affascinante.

Il tradimento di Buscetta non è spontaneo, è in qualche modo costretto a tradire, per la propria sopravvivenza e della sua famiglia.

Tale scelta lo costringerà ad una vita da esule, recidendo di fatto tutte le radici con il proprio passato. Questo l’ha in qualche modo sinceramente addolorato, perché in fondo è là che voleva tornare (la “sua” Sicilia, “il gelato a Mondello”…), e non è mai più potuto tornare. È dovuto stare sempre lontano, per difendere la propria vita. In qualche modo c’è riuscito, ma al prezzo di una “prigione permanente” (lui che aveva vissuto tanti anni in tante prigioni reali).

A questa scelta sarà fedele fino alla morte, naturale, nel suo letto, come voleva che avvenisse. Sarà la sua vittoria.

Il film svolge questo tema nell’arco di molti decenni della vita di Buscetta, perciò la difficoltà, essendo un film e non una serie, di condensare i fatti, le azioni determinanti nel tempo di un film, procedendo per salti. Difficoltà credo affrontata nella sceneggiatura, che poi la regia e il montaggio hanno dovuto superare.
Penso a riprese “frontali”, estremamente sintetiche, concentrate, evitando movimenti di macchina di tipo descrittivo, privilegiando immagini fisse, in cui i personaggi entrano ed escono di campo con sottolineature sull’asse, evitando, dove è possibile, l’”oggettività” del controcampo.
Lavorando sul contrasto (il controluce) e sui colori caravaggeschi della Sicilia, partendo dal fotogramma nero, un po’ come faceva Caravaggio che preparava la tela nell’oscurità del suo studio.
Ricercando anche quella lingua originale della Sicilia, la cadenza, i dialetti siciliani, lingue meravigliose, estremamente ricche ed espressive, che tanto spesso sono stati offesi diventando caricatura, imitazione, barzelletta.

Questo solo per accennare al film che ho fatto, personalissimo ma anche molto oggettivo, più avventuroso degli altri, proprio perché vuole esplorare un mondo lontano dal mondo delle mie origini provinciali e nordiche, dalla mia diretta autobiografia.

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