Lettera di Patrizia Pugliese, una professoressa dal carcere di Tolmezzo

Scrivo da Udine e sono una docente di lettere presso il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Esperienza unica e bellissima. Ho conosciuto tante storie e tante non vite. Lavoro per quelli della sorveglianza speciale. Tre volte alla settimana il mio lavoro si traduce in missione. Sono laureata in lettere ma sto conseguendo seconda laurea in psicologia a Trieste. Lavorando in carcere ti rendi conto di diverse realtà che ti si presentano davanti. Io voglio bene ai miei ragazzi, mi rifiuto di usare due parole con loro: detenuti e celle, preferisco parlare di ragazzi e di stanze. I miei ragazzi sono stati ragazzi di strada (20 anni fa) ora sono diventati ragazzi di lettere (scrivono, compongono poesie, studiano, c’è chi si iscrive all’università, parlano di amore, fratellanza, di giustizia e di ingiustizia.)

I miei ragazzi hanno capito il concetto di “colpa”, loro hanno elaborato il concetto di “male” come male che c’è stato per vari motivi (provenienza geografica, culturale, oserei aggiungere substrato, giovane età, incoscienza, sogni di gloria, materialismo…) Oggi, a 20 anni di distanza, posso affermare con coscienza morale che sono cambiati. Mi ritrovo a parlare con uomini da una forte valenza morale a cui bisogna dare una chance. CHe senso ha privare un uomo nuovo ad un destino nuovo? …Sbagliare è umano… ovviamen te, il loro, non è un piccolo sbaglio… Ma 20/25 anni non bastano per ripulire le loro e nostre coscienze? Considero l’ergastolo ostativo un crimine quanto quello commesso dai detenuti. Il carcere? Un gatto che si morde la coda e in cui la logica non sovviene.

La libertà, purtroppo, è fortemente apprezzata da chi ne viene privato.Vivere sulla propria pelle certe esperienze ti segna per tutta la vita. Entri in una cella e senti chiudere alle tue spalle una porta di acciaio. Il rumore freddo e sordo ti penetra violento nel cervello e nelle ossa, ogni minuto di ogni ora di ogni giorno che trascorri in quella condizione disumana. Cerchi di fartene una ragione, di capire, ma non c’è nulla da capire. Alla fine ti rassegni ad una condizione di assoluta dipendenza dal tuo custode che ha il potere di toglierti o restituirti la facoltà di uscire dalla gabbia. Ti chiedi il motivo, se c’è, di tanta raffinata lucida crudeltà ma non trovi una risposta. Il sonno è l’unico rifugio che ti permette di lenire il dolore di tanta apprensione, ma, al mattino, apri gli occhi ed il tremendo incubo continua forte, potente, straziante. Ancora ferro, sbarre, quel rumore assordante che continua a penetrare devastandoti senza pietà. Vorresti urlare, ribellarti, uscire da quell’incubo, ma finisci per subirlo supinamente. Inizia un nuovo giorno, una nuova tortura, un lento inesorabile stillicidio. Oggi, però, è una giornata importante, il processo. Sono sveglio e fisso i fori della branda di ferro illuminati dalla luce gialla riflessa dei fari appesi ai muri di cinta. Chiudo gli occhi…Pensieri confusi mi accompagnano nel dormiveglia finchè non sento il tintinnio del mazzo di chiavi della guardia di sezione che si avvicina alla mia cella e mi avvisa di prepararmi. “La scorta è pronta tra mezz’ora, si sbrighi!”Mi vesto rapidamente, entro nel piccolo bagno e mi lavo il volto asservandomi in un minuscolo specchio appoggiato ad un pacchetto di sigarette incollato al muro con il “vinavil”. E’ tutto così surreale! A volte, mi sento aggrappato alla vita con quello stesso “vinavil” che, in carcere viene utilizzato per appendere al muro qualsiasi cosa. E’ un pensiero totalmente buffo che le mie labbra sorridono ed io mi osservo allo specchio, protagonista di questa situazione bizzarra, quasi fosse spettatore di me stesso. Il tempo scorre e non mi resta che attendere. Ora sono pronto, ho paura, sta arrivando l’appuntato. Ancora una volta il rumore sordo di quella serratura che scandisce il tempo immobile nella mia cella. “Andiamo c’è il processo!” E’ l’ultima udienza, il verdetto, il cruccio tra la fine di un incubo o l’inizio della fine. “Si, sono pronto, andiamo!” Intorno a me il vuoto, mi manca l’aria. Ecco il furgone blindato, mi mettono le manette. Ancora ferro su di me, lo detesto, mi sento strangolare l’anima. Salgo sul furgone e vengo rinchiuso in una piccola gabbia fatta di tre pareti e soffitto in lamiera ed una porta scorrevole in lama di ferro forata. Naturalmente mettono anche un lucchetto alla serratura di questa gabbia. Ammanettato e rinchiuso riesco a malapena a muovermi. Cerco di tranquilizzarmi, ma il cuore batte forte, lo sento. Un accenno di panico ha il sopravvento al pensiero di una fine atroce nel caso in cui il furgone facesse un incidente. E’ un pensiero terribile comune tra noi detenuti di alta sicurezza. Un respiro profondo e, per fortuna, siamo arrivati. Il tragitto era breve ed ora le porte si aprono. L’impatto con l’indifferenza della gente mi stordisce, mi sento quasi ebbro in presenza di spazi così ampi rispetto ai luoghi sistematicamente circoscritti del carcere. Nell’aula c’è il solito brusio, persone distratte, avvocati indaffarati, discutono tra loro dell’ultimo film uscito al cinema o di come si mangia in quel ristorante. Tutto sembra normale, naturale, poi silenzio… “Entra la Corte”. L’interrogatorio è secco, perentorio… “Bene! Basta così, conosciamo i fatti!”… “Ma signor giudice… vorrei aggiungere…” “No! Basta! Facciamo silenzio!”. Il Presidente è atento, severo, niente eccezioni. E’ una questione di principio, di economia processuale… Poi la Difesa, l’avvocato si esprime bene, declama austere citazioni in lingua latina, sostiene l’assenza di prove, la leggerezza nello svolgere le indagini ma di mezzo c’è un “morto ammazzato”.

Il Pm legge il giornale, sbadiglia annoiato, assorto, indifferente. La sua tracotanza malcelata trasuda dalla toga che indossa a metà schiena per non sgualcire l’abito nuovo. Tocca all’accusa. Il tono solenne iniziale si trasforma in un’arrogante, supponente, quasi insofferente sproloquio supportato dai soliti assiomi: “Non poteva non sapere! Non poteva non vedere! Non poteva non pensare!” Il solito gioco di prestigio, il solito virtuosismo dialettico e viene dissipato ogni ragionevole dubbio, ogni perplessità. Sono confuso, non capisco, la corte si ritira e le speranze si affievoliscono. Pasa un’ora, ne passano due, forse è buon segno… Sono attenti… Ricomincio a sperare… Continua il brusìo, la testa mi scoppia, sento le vene pulsare. Non ne posso più, mi sembra di esplodere! Ho fumato un intero pacchetto di sigarette, la mia bocca è impastata, la saliva vischiosa, dal sapore acre, è velenoso, ho sete. Oddio!!! Un po’ di aria vi prego! Ci siamo, la tensione è palpabile, suona il campanello. Mi arriva una violenta scossa alla nuca, mille pugnali la trafiggono. “Entra la corte, in piedi!” poche parole crude e gelide: ” In nome del popolo italiano, visto l’art. 533 condanno l’imputato alla pena dell’ergastolo!” Sento l’eco di questa frase nella mia testa, è la fine, sono annichilito. Non riesco a ragionare, resto senza parole, mi sembra di sognare. Un incubo da cui non c’è via di uscita. “Stai tranquillo, c’è l’appello”… Odo la voce del mio avvocato dal suono distante e ovattato, quasi provenisse da un’altra dimensione. Avanzo con gli occhi sbarrati, un agente mi dice… “Su, coraggio!” mentre, come un’automa, porgo i polsi per essere ammanettato. Si rientra in carcere. Finalmente mi posso rifugiare nella mia cella dove, paradossalmente, mi sento al sicuro, come un bimbo nel grembo della madre. Si… Sto impazzendo, sto delirando!La vita continua, la vita di un sepolto vivo. Sulle mie spalle un fardello crudele, nel mio fascicolo una frase che non lascia speranza: “Fine pena mai”.


Questo scritto appartiene ad Emanuele Pavone, detenuto presso la casa circondariale di Tolmezzo. Mi autorizza a diffondere questo splendido graffito umano. Vi chiedo di riflettere. Come lui, tantissimi altri nella stessa condizione. Auguro giustizia a tutti, alle vittime, ai parenti, ai detenuti. Giustizia come “Giusta punizione”. Ringrazio tutti i detenuti, sezione massima sicurezza di Tolmezzo, vi ho trovato pentimento (radicato, forte, sentito), dignità, sguardi fieri e in alcuni una sensibilità fuori dal comune. Grazie per avermi sostenuto durante l’anno scolastico, grazie di avermi protetta e a modo vostro “amata”. Mi sono sentita “amata” come non mi era mai capitato fuori. Nessuna volgarità o mancanza di rispetto nei confronti di una giovane donna di 35 anni. L’odio, l’invidia, i cattivi pensieri non fanno parte dei miei otto ragazzi. Grazie per il meraviglioso anno scolastico passato insieme


Patrizia Pugliese, Docente di lettere presso Carcere di Tolmezzo

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